Magazine Cinema
di Andrej Zvjagincev
con Aleksey Serebryakov, Elena Lyadova, Vladimir Vdovichenkov
Russia, 2014
genere, drammatico
durata, 140'
Battuto da Ida di Paweł Pawlikowski come miglior film straniero alla 87ª edizione della cerimonia degli Oscar, Leviathan di Andrey Zvyaginstev ha suscitato al suo ritorno in patria non poche polemiche. La pellicola è infatti stata pubblicamente osteggiata dal ministro della cultura russa Vladimir Medinsky, che lo ha definito un film anti-Russia, accusando il regista di aver ambientato in un luogo ben definito una vicenda dal respiro umano e sovra-nazionale, dando così un’idea sbagliata e fuorviante di quella che è la vita in Russia al tempo di Vladimir Putin. L’ultima fatica di Zvyaginstev non ha messo in allarme il solo Medinsky, ma persino gli attivisti della chiesa ortodossa hanno chiesto all’ormai esasperato ministro di bandire qualsiasi proiezione della pellicola, definendolo un film “del diavolo”. Leviathan narra la triste vicenda di Kolya (Aleksey Serebyakov), un Giobbe moderno che tira avanti grazie ad un modesto lavoro di meccanico di giorno e con la vodka la sera. La vita con Lilya (Elena Lyadova), moglie di seconde nozze, è rallentata dalla crescente depressione di lei e dal difficile rapporto che questa intrattiene con Roma (Sergey Pokhodaev), figlio di primo letto di Kolya, e quindi orfano di madre. Come l’eroe biblico, perseguitato da Satana, deve sopportare con rassegnazione e proverbiale pazienza la perdita dei suoi beni, i rimproveri degli amici e le sofferenze dovute alla malattia (Kolya ha già perso la prima moglie), anche l’eroe russo dovrà scontrarsi col Male, incarnato nella figura del primo cittadino del paese, Vadim (Roman Madianov), un politico corrotto che vuole per sé il territorio su cui Kolya e la sua famiglia hanno costruito la bella casa in cui ora vive.
Kolya, ex militare dalla tempra coriacea, accetta di farsi aiutare da un ex compagno d’armi, ora avvocato di Mosca (Vladimir Vdovichenka), che mal sopporta gli abusi che l’amico sta subendo. Le interpretazioni simboliche e allegoriche infittiscono il film di riferimenti e citazioni a non finire. Ecco dunque che se l’eroe (o antieroe?) protagonista del film è assimilabile al vecchio saggio biblico, il Leviatano mostro mitologico che il cristianesimo ha mutuato dalla tradizione babilonese, non è più personificazione del caos vinto e distrutto dall’infinita potenza di Dio, ma è egli stesso carnefice spietato. Sebbene di un enorme animale marino venga più volte mostrato lo scheletro, il Leviatano di cui parla Zvyaginstev stringe l’occhiolino a quello raffigurato nel frontespizio dell’omonimo capolavoro di Thomas Hobbes: un uomo coperto di squame, in cui ogni squama è un suddito, che regge in mano i simboli del potere temporale e spirituale: una spada e un bastone. Egli è cioè il capo supremo cui ciascun cittadino regala la propria libertà individuale in cambio del governo e di un efficiente funzionamento statale. Nel film questi è perfettamente incarnato da una burocrazia capillare e insormontabile, da un potere statale che controlla ogni aspetto dell’esistenza.
In questo senso l’opera non vuole essere una riflessione generale e sovratemporale sul potere statale, ma è altresì colma di riferimenti alla situazione della Russia nostra contemporanea, figlia di una storia con cui deve ancora fare i conti (agghiacciante la scena in cui i protagonisti durante un pic-nic decidono di usare come bersaglio per sparare una serie di ritratti di Brezhnev, Andropov, Trotskij e compagnia bella) e di un presente con cui si rapporta malamente (il ritratto di Putin regna nell’ufficio del sindaco corrotto, così come durante una scena la telecamere incede lentamente su un servizio in tv sulle Pussy Riot). Moglie, figlio e amici di Kolya diventeranno catalizzatori, vittime e testimoni della sciagura che si abbatterà sul povero meccanico di provincia, solo, senza che nemmeno l’aiuto di Dio giunga a salvarlo in exstremis. Se nella prima parte del film la narrazione, a tratti ironica, si concentra sulle abitudine del popolo russo, “barbare” agli occhi dei “civilizzati” occidentali, il passaggio nella seconda parte del film, da riprese di interni a scene di esterni rocciosi e desolati come la Waste Land di Eliot, rimanda a un universo di solitudine e sofferenza, in cui scene corali si disgregano in statici ritratti di individualità in lotta con un sistema da cui possono, solo, essere vinti. La mancanza di alcun tipo di melodia, se non nell’ultimissima sequenza, annichilisce con la sua assenza qualunque sentimento positivo di redenzione, e fa anzi da eco alla stasi e al vuoto spirituale in cui questi poveri uomini si trovano a vivere. Erica Belluzzi
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