Ci sono certi medici che ti fanno proprio uscire dai gangheri. Sono quelli che ti sentono ma non ti ascoltano, che ti fanno domande che contengono in sé già la risposta, che non ti guardano mai in faccia e che nella migliore delle ipotesi tengono fissi gli occhi su un foglio di carta dove appuntano quel che si dice loro. In poche parole, medici che non sanno nemmeno dove sta di casa l’empatia. E non sono pochi.
Eppure l’empatia è sempre stata considerata una componente essenziale nel rapporto medico-paziente ed è ormai appurato, grazie a numerosissimi studi, che porta dei notevoli benefici alla salute del paziente. Alti livelli di empatia del medico sono associati a un minor numero di errori, maggiore soddisfazione dei pazienti e dei medici stessi, e, ultimo ma non ultimo, miglioramento nella sintomatologia dei pazienti.
A questo proposito, è recentemente stato pubblicato sulla rivista Academic Medicine uno studio retrospettivo di una équipe italiana in cui si sono valutati gli effetti dell’empatia di 242 medici di medicina generale sulla salute di 20.961 pazienti diabetici seguiti da loro nel periodo 2002-2009.
I ricercatori hanno misurato l’empatia dei medici sottoponendoli a un test validato in cui, tra l’altro, si valutava quanto erano in grado di comprendere il punto di vista dei pazienti. È già interessante constatare che solo il 33,5% di loro mostrò livelli elevati di empatia, contro il 34,7% di moderati e ben il 31,8% bassi. Emerse inoltre che i pazienti seguiti da sanitari con alti livelli di empatia avevano il numero più ridotto di complicazioni metaboliche acute che richiedevano il ricovero.
Dunque, sull’empatia si dovrebbe puntare molto di più da parte delle autorità sanitarie di quanto si faccia adesso. Si dirà che l’empatia è un dono che o si possiede o non possiede. Niente di più sbagliato. In realtà è un’abilità che si può imparare e rinforzare. Almeno così asserisce un nuovo studio.
Si è partiti da ricerche del decennio precedente le quali avevano mostrato che persone empatiche presentavano attività cerebrale, frequenza cardiaca e conduttività elettrica sovrapponibili a quelle della persona di cui condividevano le emozioni. Come quando vedere qualcuno che si chiude la mano dentro lo sportello dell’auto ci induce a ritirare la nostra poiché l’immagine dell’incidente mette in moto i sensori del dolore e della paura del nostro cervello. Su queste basi, una équipe di ricercatori dell’Empathy and Relational Science Program del dipartimento di Psichiatria del Massachusetts General Hospital di Boston ha messo a punto una serie di moduli formativi per medici. L’obiettivo era insegnare tecniche per riconoscere movimenti del corpo ed espressioni, cioè la comunicazione non verbale, dei pazienti e strategie per affrontare le loro risposte fisiologiche durante le visite dai contenuti ad alta emotività.
Furono dunque arruolati 100 medici e fu chiesto ai loro pazienti di valutarne le capacità empatiche sulla base della loro abilità nel farli sentire a proprio agio, nel mostrare attenzione e compassione e nel comprendere pienamente le loro preoccupazioni. La metà dei medici partecipò a tre sessioni di un’ora ciascuna di training e due mesi dopo i ricercatori chiesero a un secondo gruppo di pazienti di valutare l’empatia di tutti e 100 i medici. Emerse che coloro che avevano frequentato i corsi avevano mostrato miglioramenti significativi nel loro comportamento empatico. In particolare, fu osservato, interrompevano meno i pazienti, mantenevano il contatto visivo con loro, erano maggiormente in grado di restare calmi anche quando i pazienti si mostravano arrabbiati, frustrati o turbati. Infine, avevano mostrato un atteggiamento non “disumanizzato”. Invece, coloro che non avevano seguito i corsi ricevettero valutazioni che mettevano in evidenza addirittura un peggioramento delle loro capacità empatiche rispetto alle valutazioni di due mesi prima.
Tutto questo non sarà tutto oro colato, ma sarebbe opportuno che si ponesse maggiore attenzione a questo tema e si prestasse attenzione alla voce dei pazienti.