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Li Buffoni – un racconto di Francesca Diano

Creato il 18 febbraio 2016 da Emilia48

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Li Buffoni

da Fiabe d’amor crudele, 2013 Edizioni La Gru

 Giulia era nata esattamente quando doveva nascere. Nel bel mezzo di un duetto fra il Primo Amoroso e la Prima Amorosa, mentre le urla di Capitan Spaventa, che era per piombare sui due giovani languorosi a strozzar loro in gola i cinguettii coprivano, come si conveniva, i suoi primi vagiti.

Ed era nata esattamente dove doveva nascere. Sotto le assi di legno scricchiolanti di un carro di Tespi. Quando da tempo ormai le sgangherate compagnie di guitti avevano iniziato ad organizzarsi in vere e proprie compagnie di comici, aveva recitato la sua prima parte in braccio alla madre, un’attrice di non molto valore confinata nel ruolo di servetta, sposata a uno Zanni di ottimo mestiere.

Era nata durante una sosta nei pressi di Genova – così riferiscono le scarse fonti – sesto parto di sua madre, mediocre servetta in scena ma consumata fattrice, che dunque si sbrigò presto da quell’impiccio. Poiché Giulia aveva una gran voglia di mostrarsi al suo pubblico, al capocomico venne un’intuizione geniale. Quarantott’ore dopo la sua nascita, la commedia si concluse con nozze riparatrici fra gli Amorosi; nozze che avrebbero regolarizzato l’esistenza di quell’inatteso frutto della colpa, portata in scena beatamente assopita dopo la poppata.

Da quella sera non scese più dal palco, che fosse quello mobile del carro dei comici o quello dei teatrini pubblici e più raramente privati che li ospitavano.

Giulia conosceva ogni venatura di quelle assi che sera dopo sera la sostenevano, ogni  loro lamento e cigolio. Persino di quelle che calpestava per la prima volta. Non c’era nulla che sapesse fare meglio del recitare.

L’unica dote che sua madre aveva potuto fornirle era quella di averne fatto una perfetta macchina teatrale, minuta ma proporzionata, con la generosa aggiunta di un portamento regale e di un viso mobilissimo. Nel baule da corredo Giulia aveva trovato poi una voce armoniosa che sapeva scaldarsi fino a una sensualità sottesa, capelli lunghi e folti che sfuggivano maliziosamente, a stento trattenuti, dai nodi della complicata acconciatura. E, ben più preziosa di copriletto di seta ricamata e di ventiquattro paia di lenzuola finissime, di cui non avrebbe saputo che fare, la voglia di imparare avidamente. Così sapeva leggere, scrivere, cantare, suonare il liuto e danzare con grazia.

Giulia amava sentirsi viva attraverso le parole e i sentimenti recitati del suo personaggio.

Sì, Giulia era nata per quel mestiere.

Per puro istinto non si era mai lasciata incantare dalle molte porte che le si erano socchiuse davanti, perché sapeva che dietro quelle porte c’erano dei letti. Trappole orizzontali, pur se cariche di lusinghe,  da evitare; guai e inganni da cui tenersi fuori.

Quando ebbe l’onore d’entrare nella compagnia dei Sospirosi, il cui fondatore e capocomico, il Signor Luigi Gemma,  era prolifico di figli e canovacci, che lui chiamava ancora scenari, aveva tredici anni.

Ogni volta che il Signor Gemma pronunciava la parola: SCENARIO, sospendeva un istante la voce per  prender fiato ed emetteva poi quel rotondo e saporito accordo di suoni  separatamente, come quella galleggiasse isolata dalle altre, in un suo iperuranio, che non aveva nulla a che dividere con le sue più umili sorelle che le facevano da cornice.

Giulia cesellava già le parti di Prima Amorosa con arte consumata, perché aveva un talento naturale per l’amore ma, come le api sui fiori – metafora cara ai molti poeti che le dedicarono sonetti petrarcheschi e poemi in ottava rima – assaggiava e sfiorava senza mai posarsi, per quella deliziosa leggerezza di spirito che ne faceva perfetta cera da modellare ai sentimenti fittizi della scena.

Nell’Arte ci si sposa presto e dunque, dopo qualche anno,  Giulia aveva ricevuto proposte dal Signor Gemma, rimasto vedovo per la seconda volta a quarantadue anni ma con corteo di numerosa figliolanza, da Matteo Spinola, acclamato Dottor Balanzone e ancora da vari Zanni e Primi Amorosi di altre compagnie.  Ma a tutti Giulia sapeva dir di no con tale spirito e tale garbo che quelli, senza saper come, se ne sentivano onorati e consolati anziché offesi.

Come si può leggere nel passo saliente di una lettera del suo Epistolario[1], vergata all’età di diciotto anni e inviata ad un suo ammiratore rimasto sconosciuto agli storici del teatro, così scrisse Giulia:

“S’i decidessi di prender marito, caro Signore e Amico, non poderia pensare altri ch’a Voi. Ma l’Arte mia è gelosa e possessiva oltre misura e mi richiama tutta a sé medesima. Come poderia tradir lei con Voi e Voi con lei? Non sarebbe questo il più atroce degl’insulti a chi m’ha tanto dato e tanto in me ripone stima e m’onora del suo amore? AbbiateVi dunque per certo che l’affezione che nutro per Voi e che custodisco nel più profondo recesso del mio seno, nulla avrà a soffrire del forzato mio rifiuto all’unione dei destini nostri, poiché Amore è un Dio bizzarro e ingannatore e vendicherebbe amaramente qualunque gli si facesse tradimento. Sia che fosse dell’Arte o d’un marito. Lasciate per ciò ch’io mantenga per Voi l’affezione più pura e sappiate che le parole che rivolgerò questa sera al Primo Amoroso, nell’atto stesso in cui s’involeranno dalla scena per posarsi sulle Vostre nobilissime orecchie, non saran più volatili chimere e bizzarrie d’indegna Comica qual io sono…”

E quello se ne beò come l’avesse per sua.

L’anno che Giulia era entrata nella compagnia dei Sospirosi era stato terribile per gli stati italiani. Pestilenze, carestie, spagnoli si erano assommati per finire di mandare all’aria quel poco che era rimasto. E proprio per questo la gente accorreva volentieri e ancor più volentieri ad ascoltare i Comici, a ridere ai loro frizzi e lazzi, ad applaudire le loro capriole,  a commuoversi al loro repertorio di finte lacrime, finte ire, finti sospiri. Si divertiva e dimenticava i guai.

La Serenissima, con il Piemonte, era una terra meno toccata dalla grande crisi ma, anche per lo Stato da Mar, con l’assedio di Candia appena iniziato, si stavano preparando tempi duri e la polizia segreta lavorava con attenzione e prudenza. Tuttavia a Venezia si respirava una certa qual aria di libertà. Il Consiglio dei Dieci era durissimo nel far rispettare le leggi, ma tollerava e anzi favoriva i divertimenti innocui. I teatri a pagamento erano stati aperti numerosi dalle nobili famiglie, come i Tron e i Grimani,  desiderose di guadagnare bei bezzi.

Il padre di Giulia aveva origini veneziane di terraferma, ma si sentiva molto orgoglioso per essere nato nel territorio della Serenissima e ne vantava spesso, anche fino allo sfinimento, per chi l’ascoltava quotidianamente, la liberalità, l’apertura, la nobiltà dei costumi e la fermezza politica. <<Col papa no gh’avemo gnente da spartir. Semo siori e podemo far de manco de farghe le riverenze. Figurarse!>>

Era questa la ragione per cui Giulia sperava con ansia di arrivare un giorno in terra veneziana a mostrare le sue grazie e la sua arte. Ma mai quanto il Signor Gemma, che riteneva l’arrivo a Venezia il coronamento della sua gloria teatrale.

Come attestano gli scarsi documenti, conservati in un archivio che vuole rimaner  privato, qualche anno dopo l’ingresso di Giulia nella compagnia dei Sospirosi, il Signor Gemma, capocomico, decise di puntare su Vicenza,  Padova e la Riviera del Brenta, luoghi frequentati in gioventù e di cui spesso rievocava, in toni languidi e con occhio lucido la dolcezza del paesaggio. A dir la verità, più di qualcuno sospettava che quel paesaggio non fosse propriamente geografico, ma che il ricordo di ben altre colline e pianure lo facesse sospirare. Sarebbero state, quelle piazze, il degno Prologo, Atto Primo, Secondo e Terzo, per un glorioso finale a Venezia.

Aveva progettato di rappresentarvi, così risulterebbe, oltre a due suoi recenti canovacci, o scenari a suo dire,  di cui non s’è conservata traccia, il famosissimo Alchimista, di Bernardino Lombardi e forse anche La pazzia di Isabella, della grandissima Isabella Andreini, che non mancava mai di incendiare il pubblico per l’entusiasmo. Quando il Signor Gemma ne fece cenno a Giulia, lei si sentì tremare fibra a fibra per l’emozione, perché da sempre e in segreto covava il sogno di emulare la fama della Divina Isabella. E, come lei, divenire immortale.

Ma occorreva innanzitutto, per allestire delle recite nella stessa Venezia,  procurarsi i permessi e l’autorizzazione del Senato, con lettere di supplica e richieste ufficiali, ma poiché i Sospirosi godevano già di solida fama e il Signor Gemma si onorava di certe protezioni vicine a un Signor Patrizio Giustinian, la cosa si sarebbe certo conclusa felicemente.

La compagnia si mise in viaggio alle prime luci del 4 settembre 1648, bellissima giornata ancora calda e nel tardo pomeriggio sostò a Ferrara, dove prese alloggio alle Due Bilance.

Qui, prima di traversare il Po ed entrare nel territorio della Serenissima due giorni più tardi, era prevista ancora una recita. Ovviamente il Signor Gemma aveva optato per L’Alchimista, il cui autore era nato a Francolino, dove i viaggiatori diretti a Venezia s’imbarcavano per la traversata del fiume.

Fu un successo. I ferraresi, come fossero ridivenuti tutti bambini, risero fino alle lacrime alla parlata mista di bolognese, ferrarese e modenese di Graziano, il finto architetto, e altrettanto si divertirono alle battute di Momo, alchimista intrigante. Finì così che, a gran richiesta, ci si dovette fermare per una seconda recita il giorno successivo.

Il Signor Gemma, tutto esaltato per la gran riuscita e pregustando la pioggia di monete pregiate da raccogliere a Venezia, si fece animo e, alla fine della recita s’avvicinò a Giulia.

<<Ascoltate, cara Signora Giulia, so che son tanto più grande di voi per età e per esperienza, ma guardandovi questa sera sulle assi della nostra scena ho pensato che tutta la mia vita non sia stata altro che l’attesa di voi. Lo sapete da tempo che la vostra bellezza, il vostro talento, la vostra grazia mi han preso il cuore in lacci che non desidero sciogliere. Se solo voi voleste pensare a queste mie parole e far di me l’uomo più felice di questa terra… Uniamo le nostre vite e la nostra Arte e vi prometto la felicità e le devozione più schiette.>>

La povera Giulia, presa per la seconda volta in contropiede da quella dichiarazione non voluta, penò gran fatica a dir “ni” per non deluderlo, ma anche per non illuderlo. Quando si sarebbe decisa a prendere marito non sarebbe stato certo il Signor Gemma. Ma non era il momento di essere  troppo aperta nelle sue intenzioni, perché ciò che più le premeva era di riuscire a convincere Gemma a mettere in scena a Padova La pazzia di Isabella. Era la parte a cui teneva di più ed era sicura di avere talento a sufficienza per ricalcare le orme della Divina Isabella Andreini. Da tempo la sua ambizione segreta era di recitare Isabella nella città di Isabella.

Così Giulia, sentendo che il momento era opportuno, si fece forza e, raccogliendo tutto il suo talento e il suo spirito, scrisse un piccolo sonetto che fece recapitare al Signor Gemma quella stessa sera. Ne diamo qui di seguito il testo nella versione riportata nell’edizione in nota.

Signor mio, questa sera l’arte Vostra

Ha lasciato le Muse ammutolite.

Nulla sapeano dir, né più far mostra

Del’arte loro, tanto fûr stordite.

L’umile serva Vostra al Vostro piede

V’implora e supplicando a Voi s’accosta;

Che un desiderio suo sia la mercede

Della sua umilissima proposta.

Sia tosto il sogno mio ricompensato

Di recitar la parte gloriosa

Di colei che, poetessa, attrice e sposa

Si nomava Isabella e fu Divina.

La Pazzia ch’ella scrisse concedete

Ch’io reciti o sia messa alla berlina.[2]

Tra le sue grazie, a differenza della Divina Isabella, Giulia non annoverava quella d’essere valente poetessa, come prova il sonetto che riportiamo. Ma il Signor Gemma ne fu tanto colpito che il giorno seguente volle parlarle.

<<Signora Giulia, il vostro sonetto, devo confessarvelo, ha mosso il mio cuore. E voglio ricompensare come meritano l’arguzia, lo stile nobile e l’eleganza con cui avete interpretato ieri sera la parte di Madonna Lucrezia…>>

<<Oh, Signor Gemma!>> lo interruppe Giulia, tendendo una mano verso di lui. <<Voi sapete quanto io m’abbia caro il recitare e quanto ami la nostra Arte, ma lasciatemi dare una prova, come io…>>

<<Signora, vi prego!>> disse il Signor Gemma in tono severo. <<Voi sapete quanto io sia rigoroso nel decidere e nell’assumermi le responsabilità per il buon andamento della mia compagnia. E mi sembra che fino ad ora non abbiate avuto a lamentarvene. Il pubblico  ha richiesto a gran voce una seconda recita dell’Alchimista e non possiamo deluderlo. Mai vorrei essere scortese con voi o recarvi un dispiacere. Proprio a voi, alla quale, come ben sapete, porto tanta devozione. Sappiate dunque attendere il vostro momento. So che conoscete la parte di Isabella meglio dell’Ave Maria e che desiderate misurarvi con la divina Andreini, che avete eletto a vostra ispiratrice. Pensate che non l’abbia compreso? Ma portate pazienza e preparatevi per ora  ad accogliere gli applausi che vi sono dovuti nella parte di Madonna Lucrezia.>>

Il tono un po’ seccato con cui il Signor Gemma le aveva parlato, consigliò a Giulia di non insistere. Inoltre sarebbe stato considerato un atto di gravissima insubordinazione e non desiderava causare screzi con il suo capocomico. Dunque, a malincuore, si scusò e promise di accettare di buon grado le sue decisioni. Ma in cuor suo sperava che il momento tanto atteso non sarebbe tardato.

Due giorni dopo la compagnia dei comici si avviò a passare il Po per inoltrarsi nel territorio della Serenissima, preceduti dalla loro fama.

A Padova, la città dei gran Dottori, presero alloggio nella locanda Ai due Catini d’Oro, presso le Piazze, separate dalla mole maestosa del Salone, luogo in cui per secoli s’era amministrata la giustizia.

La compagnia era attesa e il Signor Gemma venne subito informato che le recite, due, sarebbero state tenute su di un piccolo palco non lontano, che si poteva vedere anche dalla locanda e che i carpentieri stavano terminando di allestire.

In genere, per gli spettacoli popolari, si destinava un angolo della Piazza delle Erbe, presso il Canton de le Biade.  Il Signor Gemma dovette ammettere che l’accoglienza superava le sue più rosee aspettative. E fu questa ammissione silenziosa che diede fuoco alla miccia che collegava la sua testa alle polveri del suo entusiasmo.

All’improvviso il capocomico ebbe un’idea che gli apparve geniale. Era giunta l’ora di far parlare di sé con qualche bella novità e novità aveva da essere se, per solleticare la ben nota curiosità dei signori veneziani, che gli spalancassero le porte, pensò di comunicare quella sera stessa ai suoi comici che il programma sarebbe cambiato. Si sarebbe messa in scena la farsa alla buffonesca di Margherita Costa, romana,  Li Buffoni, di recente aggiunta al repertorio ma mai ancora portata in scena.

L’idea gli apparve tanto semplice quanto geniale. Proprio come era lui medesimo.

I comici presero posto attorno al lungo tavolo, nella sala grande dei Due Catini d’Oro. L’oste Menetto era un uomo lungo e appuntito, esattamente come i suoi baffi, mentre  folte sopracciglia facevano da spiovente agli occhi incassati in due caverne d’orbite. Dell’oste non aveva l’aspetto,  per il colorito spento e il corpo allampanato, ma ne aveva l’animo e dunque già al loro arrivo si fregava le mani ossute per ospitare comici di quella fama, che già richiamavano una piccola folla di curiosi.

Portò loro grandi brocche di vinello dei Colli e di clinto, per innaffiare la sua specialità, il baccalà con la polenta.

Con aria di trionfo fece portare in tavola due enormi piatti di peltro, su cui  aveva disposto due rotonde vastità di polenta  dorata e fumante, circondate da fragranti filetti di baccalà scintillanti d’unto, disposti in modo da parere un sole  radiante. Dai piatti si levava una nebbiolina vaporosa, incantatrice dei sensi, che solleticava le narici, le papille e gli occhi. L’oste Menetto non voleva far brutta figura con degli artisti.

<<Miei cari amici e compagni di avventure>>, esordì il Signor Gemma quando vide i boccali pieni e i volti rianimati. <<Non so se avremo qualche Procuratore o qualche gran Dottore dello Studio fra il pubblico, ma abbiamo da far bene e che si parli di noi fino a Venezia, dove conto di andare presto. Ho affidato una supplica in buone mani e vedremo.>>

Il Signor Gemma era eccitato e i suoi baffi, ripassati segretamente – o così s’illudeva – di nero, tremavano tutti dietro il soffio potente della sua voce, che ne aveva fatto un noto Capitan Spaventa in anni giovanili.

<<So che a Padova, ma ancor più a Venezia, le signore dame godono di una certa considerazione, più che non sia dalle nostre parti. Le veneziane sono donne argute, donne di spirito, anche se so per certo, come sapete voi>>, e qui abbassò la voce volgendo lo sguardo intorno, <<che molte se ne trovano delle cortigiane, che amano far salotto e letteratura.>> Il Signor Gemma non fece alcun conto delle occhiate interrogative che si scambiavano i suoi comici. Non capivano dove  volesse parare con quel suo discorso pomposo, il cui oggetto rimaneva oscuro. Perciò proseguì imperterrito.

<<Ora siamo nella città che si orna di aver dato i natali alla Divina Isabella Andreini, che dell’arte nostra portò alto il nome in terra di Francia e di cui abbiamo in repertorio La pazzia di Isabella. Ma se, seguendo il filo dei nostri sentimenti, che così bene rappresentiamo in scena, volessimo offrirla al nostro pubblico, troppo facile sarebbe l’applauso. Dunque vorrei proporre Li Buffoni, che la Signora Margherita Costa romana, ha con tante buffonerie e lazzi confezionato, sicura di suscitare divertimento.>>

I comici si guardarono costernati. Ogni volta che si portava in scena Li Buffoni, Commedia Ridicola, come recitava il sottotitolo,  il pubblico aveva reazioni diverse e spesso inattese. In alcuni casi l’entusiasmo era salito alle stelle, ma altre volte gli spettatori avevano rumoreggiato, quando non se n’erano andati. Mai era stata una sera uguale all’altra.

I nani, i gobbi, gli storpi, le meretrici  che nel testo dovevano rappresentare re e regine, nobiluomini e gentildonne lasciavano sempre un gusto amaro e suscitavano sberleffi. I versi che scandivano i duetti o i monologhi e che costituivano la novità della commedia, così ricca di contrasti, davano agli attori la possibilità di esibire la propria bravura, ma potevano anche suonare monotoni.

<<Oh, Signor mio!>> intervenne Giulia in tono concitato, la sola capace di dir qualcosa a quell’uscita. <<Non conosciamo questo pubblico. Non vorrete davvero sfidare la sorte? Siete sicuro che sia il luogo e il momento adatto per simili esperimenti? Non sappiamo cosa piace alla gente di questo paese. Si sa che amano il riso, ma mai amaro o violento. Sono delicati e sommessi come il loro paesaggio. Non sarebbe più saggio – e badate, non per tirar acqua al mio mulino – rimaner con la Signora Isabella?>> concluse Giulia con l’affanno dell’angoscia.

<<Via, via Giulia>>, replicò il Signor Gemma in tono ilare, dimenticando persino di premettere l’appellativo di Signora con il quale sempre a lei si rivolgeva. <<Animo e coraggio! Ho la certezza che la mia scelta vi aprirà molte porte e una via libera e diritta verso Venezia. Non voglio sentir altro. Così ho deciso.>> E pose termine al suo discorso con un punto fermo  quanto  un’imbroccata a punta dritta.

Il Signor Gemma era un uomo caparbio e quella riunione con i suoi comici era una pura formalità. Non lo si poté smuovere da quella sua decisione avventata, che già faceva correre dei brividi lungo la schiena della compagnia.

La sera era calda, come accade talora in settembre e limpida e presto molta gente si raggruppò per trovare un buon posto.  Le prime due lunghe file, con comode panche di legno, erano state riservate ai notabili della città. Lentamente arrivarono i dottori dell’Università, alcuni tra i nobili de’ Buzzacarini, i Cornaro, i Mantua Benavides, gli Obizzi e i Papafava, che volevano gustarsi una commedia alla buona, fuori dai loro palazzi. Più indietro, molti in piedi o con sedute di fortuna, studenti, mercanti, rappresentanti delle corporazioni e artigiani e popolani. La fama dei Sospirosi aveva richiamato un bel pubblico e il Signor Gemma, da dietro il sipario, era tutto un fuoco di soddisfazione.

E c’era anche un Procuratore della Serenissima, il quale, trovandosi in città proprio quel giorno, aveva avuto a che dire per via di certe teste calde tra gli studenti della Nazione Alemanna, che avevano turbato con le loro intemperanze  todesche l’ordine pubblico. Avrebbe dovuto riferirne al Consiglio dei Dieci, cosa che non gli aggradava per nulla. Quei corvi lo accoglievano sempre con gran cerimonia e affabilità, ma il loro sguardo pareva volerti trapassare da parte a parte come un punteruolo, quasi tu fossi sempre e comunque colpevole di qualcosa.

Il Procuratore quindi non aveva affatto la disposizione d’animo di vedere quello che vide. E di certo non s’aspettava poi  la commedia di una cortigiana e avventuriera. Con tutti i grattacapi che creavano le cortigiane a Venezia, questi venivano a mettere in scena il testo di quella romana, che aveva persino vissuto more uxorio con un brigante? Che provocazione era quella? E che voleva significare tutta quella profusione di storpi e gobbi e meretrici che recitavano parti di nobili e signori, se non una volgarissima satira del supremo ordine con cui la Serenissima regolava le sue faccende interne? Era notizia diffusa che il Doge aveva subito una rovinosa caduta e trascinava la gamba penosamente. Dunque, quello storpio claudicante doveva essere un’atroce caricatura del nostro amato Principe – dedusse, con la chiarezza di giudizio per cui era noto, frutto della sua assidua frequentazione di Quintiliano, il Procuratore.

Senza por tempo in mezzo, si recò alla Loggia del Capitanio, dove convocò seduta stante la Guardia, che andasse a interrompere la recita.

Il povero Signor Gemma fu accusato di sovversione e, per soddisfare il suo straordinario ma non corrisposto amore per  Venezia, come andava dichiarando a ogni piè sospinto, tradotto ai Piombi. I beni della compagnia confiscati.

Fu solo per un atto di liberalità del Doge, che ad ascoltar la vicenda s’era pazzamente divertito, che i comici se la cavarono con un bando a vita dai territori della Serenissima, con ordine di arresto immediato se mai vi avessero rimesso piede.

Le fonti riportano a questo punto notizie fumose sulla sorte di Giulia. Alcune fanno riferimento a una sua personale compagnia, di cui però si tace il nome. Ma di questo non v’è certezza alcuna.

[1] Cav. Giovan Battista Goffredo Lombardini, Epistole e Fragmenti di alcune scritture della Signora Giulia genovese, Comica Sospirosa, per la prima volta edite et rese publiche dopo la di Lei morte. Parte Prima et Seconda. M. DC. XCI In Venetia. Con licenza de’Superiori. Presso Girolamo Albrizzi. Si vende dal Nicolini in Spadaria.

[2] Cav. Giovan Battista Lombardini, Op. Cit.

(C)2013 Francesca Diano



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