Introduzione e primi vagiti…
Bologna, a cavallo fra Ottanta e Novanta. I centri sociali fanno sentire la loro presenza, dopo il lavoro sottotraccia effettuato negli anni precedenti da altre realtà (si veniva pur sempre dai tumultuosi fine Settanta dell’omicidio Lorusso e dalla chiusura di Radio Alice). Si cerca insomma di sopravvivere alle luci abbaglianti del benessere economico, che presto verrà minato da un uso massiccio del precariato. La città ospita realtà molto attive, figlie dell’urgenza espressiva legata all’Università e di riflesso al movimento della Pantera (vanno annoverati posti come Isola Nel Kantiere, Bestial Market, Link, Livello 57, ma ce ne sarebbero altri). In via del Pratello reietti e studenti passano da un’osteria all’altra, e in uno degli appartamenti lì situati prende forma, tra le altre, la storia degli Starfuckers, che amano punk, garage e noise.
Facciamo un veloce passo indietro: il gruppo, prima di trasferirsi nella città felsinea, prende forma qualche anno prima in Lunigiana, lembo di terra sito in quella Toscana che ha dato i natali a mezza new wave italiana e non solo (Pankow, Neon, Diaframma, CCM, tra i tanti). Arriviamo quindi al 1989, la band fa il suo esordio con un disco che oggi potremmo definire quasi “anacronistico”: “Metallic Diseases” esce per la Electric Eye Records di Claudio Sorge, poi direttore di Rumore (non è un caso che pubblichino per questa label, che è specializzata proprio in quei suoni). Quello che sembra un omaggio scontato a Stooges e Rolling Stones (è da un controverso pezzo di questi ultimi che mutuano il loro nome), dove abbondano chitarre tipiche dei primi Settanta, è in realtà prodromo di un oggetto alieno che di lì a poco si farà notare per coraggio e voglia di spiazzare. Gli Starfuckers all’epoca sono in cinque (Roberto Bertacchini, Paolo Casini, Manuele Giannini, Gianni Ginesi, Gianfranco Verdaschi, ma negli anni la line up subirà parecchi cambiamenti) e riescono a differenziarsi dagli altri perché non somigliano a tante band ancora prese da rigurgiti dark e industrial (anche se già i “concittadini” Allison Run avevano seguito le orme di un rock dall’impostazione meno usuale per i tempi, rifacendosi nel caso specifico alla neo-psichedelia inglese). Non dimentichiamo poi che agiscono più o meno in parallelo con realtà già affermate d’Oltremanica, come My Bloody Valentine e The Jesus And Mary Chain. Torniamo al disco, che viaggia a velocità supersoniche (l’apertura di “I Love You” è chiara matrice Stooges, tutta reiterazioni, e ad un primo ascolto lascia quasi l’amaro in bocca per quelle evidenti somiglianze). Si prosegue in crescendo con “Cans”, che è piccolo manifesto colmo di feedback e distorsioni, “Dead City Blues” e il suo assolo drogato, e “Shake Off”, un esercizio di stile su una melodia dai toni malinconici. Apice del disco è però “Cold White Cancer”, che a essere sinceri si erge rispetto alle altre composizioni per una maggiore, palpabile originalità – nelle ritmiche soprattutto – risultando essere una sorta di funk metallico suonato da dei Suicide più molesti, mentre la conclusiva “Flower Lover” va ancora di ripetizioni senza colpo ferire (c’è pure un sax impazzito nel finale, ma era quasi scontato ci fosse, no?). A conti fatti rimane uscita (ristampata molti anni dopo dalla americana Holy Mountain) che pianta un seme, che però col tempo produce un frutto piuttosto diverso, inaspettato, vista la piega che prenderanno gli album successivi.
Nuove traiettorie
Siamo nel ’91, l’anno di Spiderland degli Slint, Laughing Stock dei Talk Talk e di Nevermind dei Nirvana, per intenderci. Gli Starfuckers sentono il bisogno di esplorare nuovi territori espressivi (intanto fa il suo ingresso Alessandro Bocci) e lo fanno pubblicando un ep, Brodo Di Cagne Strategico (Electric Eye/Helter Skelter), che, oltre ad avere titolo geniale (citazione davisiana inclusa), è lavoro che comincia ad affrancarsi con decisione dai modelli di partenza. Per l’occasione le strutture si fanno più serrate, c’è un sentore affine a certo industrial, si sente insomma che i tempi stanno cambiando anche per loro (l’immagine di copertina, opera di Giuseppe Cirrito in arte Tingis, dice più di qualcosa). L’incipit di “Saturazione” lo dimostra appieno, mentre la rendition di “Freddo Cancro Bianco” li traghetta verso la definitiva adozione della lingua madre. Allo stesso tempo è il lavoro che pone le basi anche proprio “teoriche” del gruppo, che incomincia a parlare apertamente di “strategie”. I componenti del gruppo non hanno alcuna intenzione di fermarsi lì, e decidono di mettersi in gioco alzando il tiro, dimostrandolo nel successivo Sinistri (1994). Qui provano a esprimere la mai doma foga espressiva con maggiore “contenimento” e voglia di sperimentare. Il lavoro stavolta esce per la bolognese Underground Records, che produce pure Stanze, l’esordio dei concittadini Massimo Volume, e segna un’ulteriore svolta. L’apertura è per la serie di lame chitarristiche di “Derivazione Attesa”, quasi uno strano e impossibile incrocio tra i DNA di Arto Lindsay e gli Slint più criptici di “Tweez”. “Ordine Pubblico” è una specie di blues con clapping e messaggio provocatorio/tributo ai reietti della società, tra amara ironia e strutture ritmiche nerborute. L’album incomincia quindi un cammino più ostico, quello che porterà alle pubblicazioni successivi: esempio di quello che voglio sottolineare sono pezzi come gli appunti sparsi delle lunghe “Zentropia” e “Macrofonie La”, dove insistono su una sorta di cut up che sfocia nella impro pura, con continui e repentini cambi di registro. Va sottolineato pure l’intermezzo de “In Primo Luogo”, dove chiosano serafici con: “e non vi furono mai anni peggiori”.
Altra pausa e nel 1997 vede la luce Infrantumi, lavoro che sancisce definitivamente l’approdo a un forma di composizione meno convenzionale (quasi unica nel suo genere): in buona sostanza si mette in pratica quello che Lydia Lunch arriva a definire, quando incrocia la band dal vivo, “eternal soundcheck”. In “Ode” sembra di sentire i prodromi dei Bachi Da Pietra, se possibile ancora più dark e con gli strumenti che si muovono liberi e senza soluzione di continuità. “Da Zero” ha quella parte finale che si abbandona in una sorta di assolo trasfigurato, mentre “Ostinato” lavora ancora di atmosfera – sinistra e incline al “violento” – con la voce di Manuele Giannini sempre più sussurrata. Tutti i pezzi dell’album tendono in media a durare meno, forse a sottolineare la loro natura di sketch strumentali. Basta ascoltare le note della dissonante “In Minor Meno”, dove all’harmonium fa capolino Emidio Clementi, che dà un tocco di colore a un disco in generale piuttosto meditabondo, perso nell’esprimere una forma di blues notturno per insonni smarritisi a loro volta in uno stato di perenne paranoia, fissi davanti a una finestra dalla quale si osserva passare inesorabile la notte. Infrantumi è, non a caso, lavoro che accantona tutte le certezze compositive fin lì conosciute, diventando uno dei migliori esempi di rock dalla matrice improv dei Novanta, e porta in avanti un discorso che si fa sempre più arduo da comprendere senza la necessaria concentrazione, e nasconde a malapena pure un’insospettabile vena sensuale (il blues, ancora, della violacea chiusura di “Qua Che”).
Passano altri anni, arriviamo al 2002, e si assiste ad un ulteriore affinamento di quello che s’era ascoltato nell’album precedente. Le infinite prove messe su quel disco qui diventano più “compiute” e assumono un carattere più spigoloso, dalla malcelata vena funk. In sostanza “Infinitive Sessions (Music Is A Pollution Of Time)”, uscito per una sussidiaria della californiana Runt (la DBK Works), è l’album più “sperimentale” del lotto (per loro un accostamento del genere è proprio necessario), vera prova di forza che scardina ancora le regole del pensare ai tempi un certo tipo di musica, che qui trova ulteriore nuova forma (in realtà la perde definitivamente, questa è la sua vera forza) mostrando di che pasta è fatta la band, ormai un trio (Bertacchini, Bocci, Giannini) che intraprende un percorso che lo porta cosi lontano che è difficile voltarsi indietro senza rimanere disorientati, tanto decisa è stata l’evoluzione. Un concept, dunque, dove i pezzi, seppur divisi in movimenti, di fatto hanno un filo conduttore, come si evince già al primo ascolto. “Drive On” è il proseguimento di “Blues Off”: al loro interno batteria frammentata e quasi jazz, chitarre che balbettano e scatarrano con determinazione, e strani lacerti di suono campionato, frutto del decisivo apporto di Bocci. L’exploit è un pezzo oscuro per eccellenza, “Eternal Soundcheck”, che è alieno al disco stesso quasi, nel senso che a un primo ascolto sembra più “normalizzato” nella forma rispetto al generale suono scorbutico. Siamo di fronte invece ad una sorta di requiem, sempre virato blues, che sa ancor più d’atmosfere funeree e notturne, tra campionamenti che si fanno grasse escrescenze, perse nel generale umore torvo. L’oggetto misterioso, la loro vera scatola nera, il punto più buio dove siamo arrivati in questo viaggio, che si conclude con le volute funk di “Funked X” e della gemella “Vamped X”, paradigmatica del modo di suonare la chitarra di Giannini, come fossero appunto una serie di vampe catturate all’improvviso che bruciano lo strumento.
Nel 2005 il progetto cambia il nome in Sinistri, e partorisce un’ulteriore forma musicale quasi scorporata dalla matrice d’origine, che risponde al nome di Free Pulse, “cosa” sempre oscura e dalla forma apparentemente incerta (il jazz acquatico di “Ampstone” e le pozzanghere blues di “Holes In Between” dicono molto a tal proposito), che naviga spedita verso quel buco nero che ormai è sempre più frequentato dai tre. Immaginate un ensemble di musicisti che fatica ad approcciarsi al jazz con la necessaria concentrazione – le sirene inquiete di “NY Vamp (Second Set)” – preso da forme di rock non convenzionale sempre più destrutturato, ed avrete una prima infarinatura di quello che vi accingete ad ascoltare. Free Pulse è il salto definitivo nel vuoto pneumatico che i musicisti ormai sondano con coscienzioso rigore stilistico e innato senso di creatività. Se c’è ancora bisogno di ripeterlo: il rock, quello che conoscevamo fino ad allora, non sarà mai più lo stesso.
Note sparse e futuro incerto
Non va dimenticato che gli Starfuckers negli anni pubblicano tutta una serie di uscite “minori”, per esempio nel tributo ai Sonic Youth intitolato “Gioventù Sonica” (ancora Electric Eye/Helter Skelter, anno 1991) dove si misurano con la storica “Death Valley 69” (quella celebre per il videoclip opera di Richard Kern, e dove partecipa proprio Lydia Lunch); dello stesso anno è l’adesione ad una compilation della rivista americana Bananafish con “Dear Prudence” (The Beatles), altra take densa di feedback e con finale jazz. Qualche anno dopo è la volta di “Mechanical Man”, vortice di paranoica foga metallica inserita in un disco tributo a Charles Manson, per i tipi della romana Helter Skelter, insieme a gente “allegra” come Motorpsycho, i Meathead di Mauro “Teho” Teardo, Skullflower e Controlled Bleeding (Io sto qui, a sorvegliare il mio guardiano è la frase inquietante che chiude il loro pezzo). Partecipano anche a Tracce, sorta di manifesto della Wallace Records di Mirko Spino (in compagnia di gruppi validissimi come Sottopressione, My Cat Is An Alien, e A Short Apnea), con “Rogi”.
Outro
Di fatto il gruppo interrompe la sua attività, ma continua a lavorare sottotraccia, fino ad arrivare al concerto del 30 aprile 2010 al Locomotiv, una sorta di rentrée utile a farci sapere che sono ancora attivi, e per ribadire che il loro lavoro non deve passare inosservato. I più attenti fruitori di certe musiche sono coscienti che di realtà simili nel nostro paese non ce ne sono state poi molte, quindi sapere che sono sempre attivi fa piacere, è sintomo di vitalità e voglia di guardare in avanti. Dunque, pur non essendoci particolari nuove uscite ufficiali, i nostri si adoperano per diffondere la loro musica, per esempio digitalizzando quasi tutta la discografia su Bandcamp (nell’intervista sotto è spiegato tutto). In ultimo resta da sottolineare come gli Starfuckers hanno fatto parte di una storia che l’underground del nostro paese ha sempre fatto fatica a comprendere appieno (è un parere personale), ma se vi prendete la briga di ascoltare con la dovuta attenzione tutti i loro album, capirete che qui siamo davanti ad una delle poche, vere, realtà culturali che all’estero ci invidiano. Una band di un altro livello, insomma.
Starfuckers: intervista a Roberto Bertacchini, Alessandro Bocci e Manuele Giannini
La messa a disposizione dei dischi sul web è un’ulteriore occasione per approfondire la musica del gruppo tosco-bolognese, che nel risponderci dimostra di avere sempre avuto le idee chiare, e di aver intrapreso, per scelta e per necessità, una strada impervia e coerente, certamente non priva di soddisfazioni. Ringrazio Alessandro, Manuele e Roberto per avermi illuminato a dovere sulla band, e sul lavoro meticoloso che ha svolto in questi venti e passa anni di attività. Buona lettura.
Ciao a tutti e tre. Partiamo da quella che è la maggiore novità riguardante gli Starfuckers: avete deciso di pubblicare la discografia su Bandcamp. Nel 2010 avevate festeggiato la ristampa di “Ordine ‘91/’96” (Sometimes Records) con un concerto al Locomotiv. Pare di capire che non vi siate mai fermati del tutto, quindi. Avete anche intenzione di comporre e pubblicare un nuovo lavoro, o vi limiterete soltanto a rendere disponibili le cose passate in formato digitale?
Alessandro Bocci: Digitalizzare la discografia su Bandcamp è il modo più semplice di ripubblicare il nostro materiale, e allo stesso tempo di inserire brani sparsi nelle varie compilation. La divulgazione della musica online è un dato di fatto acquisito. Non ci siamo mai fermati, ma abbiamo deciso di fare alcune pause di riflessione e sviluppare dei progetti paralleli. Per quanto concerne il materiale nuovo, non c’è ancora niente di programmato. C’è un progetto in fase embrionale che riguarda una rielaborazione di registrazioni mai pubblicate, ma al momento è prematuro parlarne.
Colgo l’occasione per ringraziare Francesco Eppesteingher, un mio caro amico grafico, che ha realizzato il logo e la scritta per il banner di Bandcamp.
Manuele Giannini: Al momento nessun progetto discografico nuovo, solo live mirati (recentemente abbiamo suonato al festival roBOt a Bologna e al Corto Imola Festival) o revisioni di vecchi materiali. Il fatto è che non ci siamo mai autoprodotti, e abbiamo sempre pubblicato su richiesta di etichette nazionali o internazionali, e al momento non abbiamo richieste. Ci piacerebbe che qualcuno ci ristampasse “Infrantumi” e stiamo lavorando alle registrazioni, parzialmente danneggiate, di “The Eternal Soundcheck”, il concerto della durata di oltre cinque ore tenuto al Link di Bologna nel 1999. Anche per quel materiale, a mio parere molto interessante, ci piacerebbe trovare un’etichetta.
Torniamo agli esordi. Bologna: un gruppo di ragazzi proveniente dalla Toscana decide di mettere su una band (vi conoscevate già da prima). Definite con tre aggettivi l’aria che si respirava in quella città sul finire degli anni Ottanta.
Roberto Bertacchini: Libera, culturale, divertente.
Alessandro Bocci: Conoscevo Roberto, Manuele e Gianni Ginesi prima di entrare negli Starfuckers, ho iniziato a suonare nella band nel 1991, dopo la pubblicazione di Metallic Diseases e Brodo Di Cagne Strategico. In quel periodo frequentavo Bologna saltuariamente, ma la sensazione che stesse accadendo sempre qualcosa era tangibile, una sorta di moto perpetuo tra le persone, le situazioni e le varie correnti artistiche e culturali. Molto spesso tutto ciò era affidato alla casualità, all’improvvisazione, privilegiando l’aspetto ludico e ironico come arma critica verso la società. I cardini di tutto questo meccanismo sono stati sicuramente alcuni luoghi: L’Isola Nel Kantiere, le case occupate in via del Pratello, e successivamente il Link in via Fioravanti. Gli aggettivi sono quindi: casuale, ludica, critica.
Manuel Giannini: Non è esattamente così, il gruppo nasce nella seconda metà degli anni Ottanta in Lunigiana, solo alcuni di noi studiavano a Bologna, e sino ai primi anni novanta le prove le facevamo lì. Poi ci furono le defezioni, arrivò Alessandro e spostammo la sede operativa a Massa. Bologna nella seconda metà degli Ottanta non era granché, certo rispetto ai boschi da cui venivamo noi pareva una metropoli, ma era comunque una città dove c’erano pochi posti in cui suonare e dove ancora dominavano musiche che non avevano più nulla da dire, solo l’hip hop stava cominciando ad affermarsi. C’erano, invece, grosse resistenze alle musiche veramente nuove come la techno, la house e il resto della musica elettronica, che venivamo ingiustamente bollate dagli ambienti alternativi come reazionarie, mentre noi, soprattutto grazie ad Alessandro, già amavamo, apprezzavamo e sapevamo collocarle nella loro giusta dimensione.
Mi raccontate di che tipo di rapporti avevate (se li avevate) con le band dell’epoca in città? C’erano dei posti dove suonavate di solito?
Alessandro Bocci: I ricordi si fanno un po’ confusi. Manuel abitava nelle case occupate in Via del Pratello con Mimì (Emidio Clementi dei Massimo Volume), ci siamo frequentati parecchio e siamo diventati amici. C’erano diversi musicisti che gravitavano in quella strada, ma per quanto mi riguarda preferivo trascorrere la giornata bevendo Campari nei vari bar, parlando di calcio, donne e party, raramente intavolavo argomenti di musica. Per me la forza innovativa e brutale della musica rock era finita da diversi anni, io ascoltavo techno, acid house, dub e la musica elettronica in generale. All’epoca per i “musicisti alternativi bolognesi” la techno era una musica stupida, talvolta veniva considerata come musica da “fascisti”. Purtroppo non avevano capito un cazzo. Tutti quanti o quasi, con il passare degli anni si sono dovuti ricredere, e hanno successivamente introdotto in maniera scolastica l’elettronica e i campionatori all’interno del loro materiale. All’epoca ho stretto amicizie e collaborazioni con dj, producer e promoter della area embrionale della prima scena techno bolognese. Ti consiglio due documentari: il primo di Alberto Bario intitolato “Prate TV Remix”, uscito lo scorso anno sull’esperienza della prima tv pirata di quartiere che prese vita nelle case occupate di via del Pratello nel 1992. Quella giornata di riprese, interviste, etc. culminò con un nostro concerto. Il documentario lo trovi su Vimeo. Il secondo di Cosimo Terlizzi, intitolato “Aiuto! Orde Barbare Al Pratello”.
Manuel Giannini: L’unico rapporto concreto che avevamo era quello con i Massimo Volume, io e Emidio eravamo amici da tempo, e dal 1991 abbiamo abitato un paio d’anni insieme nelle case occupate di via del Pratello. Mi chiesero di produrre il loro primo disco e collaborare alla produzione del secondo; è evidente, e riconosciuto, che lo stile vocale di “Brodo Di Cagne Strategico” ha influenzato in qualche modo Emidio.
Il gruppo ha subìto, anche per forza di cose, una serie di cambiamenti di formazione, di nome pure, ed il passaggio dall’inglese alla lingua madre; ha pure ospitato diversi musicisti al suo interno. Come siete riusciti a continuare senza in un certo senso “perdervi”, visto che in fondo avete pubblicato quasi col contagocce?
Roberto Bertacchini: Penso che nel nostro caso l’amicizia è stata la forza più importante del nostro percorso musicale. Per i pochi dischi: molto meglio pochi e buoni che tanti e noiosi.
Alessandro Bocci: Mah, credo che sia dovuta alla capacità dell’essere umano di produrre endorfina. Di recente abbiamo fatto il tagliando all’ufficio prototipi per il venticinquesimo anno, e siamo risultati sempre compatibili. Sinceramente credo che non abbiamo pubblicato con il contagocce, le uscite discografiche sono sempre state valutate in maniera obbiettiva, cercando di proporre qualcosa nel momento in cui avevi del materiale e un progetto. Personalmente non amo registrare e pubblicare ogni sorta di improvvisazione pensando che sia un documento imprescindibile per il genere umano. Non sopporto questo status che molti musicisti credono di avere, soprattutto nella cerchia dell’improvvisazione. Ogni tanto l’ego deve essere accantonato. Per questi motivi quanti dischi di merda sono usciti? E oggi, quanti lavori inutili escono alla settimana grazie al macro-utilizzo di nuove tecnologie? Della retromania sul mondo dei synth modulari ne vogliamo parlare? Mah…
Manuel Giannini: C’è una salda amicizia che lega me, Alessandro e Roberto. Saremo gli Starfuckers anche a ottant’anni, anche senza suonare.
Mi parlate di Vanni di Underground Records? Come l’avete conosciuto e com’è nata la volontà di produrre il vostro Sinistri? Andavo spesso nel suo negozio di via Malcontenti (ma era già sul finire dei Novanta) e successivamente anche nella sede di Via Petroni. Tra le altre cose, sapete che fine ha fatto?
Manuel Giannini: Andavo spesso al negozio di Vanni e sua moglie Sara, nell’epoca pre-internet se volevi ascoltare musica e avevi pochi soldi, dovevi per forza passare del tempo nei negozi di dischi. Eravamo amici, ma adesso li ho persi completamente di vista. La UR fu un’etichetta importante per la musica italiana, con pochi soldi Vanni e Sara produssero ottimi dischi, collaborai con loro per le prime produzioni. Il negozio aprì all’inizio degli anni Novanta.
Non sono mancati neanche importanti riscontri all’estero (vedi la partecipazione alla compilation per la rivista Bananafish), e poi l’approdo su etichette come Drunken Fish, DBK Works, e molte recensioni lusinghiere.
Alessandro Bocci: La critica e il mercato americano hanno sempre avuto un ruolo importante nella promozione della musica degli Starfuckers. Nei paesi europei la band è stata ben accolta. Abbiamo avuto la possibilità di esibirci, di registrare album e partecipare a compilation. Credo sia principalmente una questione legata alla cultura musicale espressa in questi paesi. Le scelte, le proposte e la promozione in Italia avvengono nella maggior parte di riflesso a quello che avviene all’estero. Questo fenomeno non riguarda solo la musica indipendente, ma anche quella commerciale. Per quanto riguarda quest’ultima, probabilmente c’è una spiegazione, ed è economica. L’Italia non ha mai prodotto una vera e propria industria musicale, il fatturato e l’incidenza economica sono sempre stati irrisori se paragonati a quelli americani o inglesi. Per la musica indipendente bisogna andare a rintracciare gli errori altrove, ed è sicuramente più complesso.
Manuel Giannini: Sì, siamo sempre stati apprezzati all’estero, sin dal primo disco, che è stato ristampato un paio di anni fa dall’americana Holy Mountain/Tlön Uqbar. Per fare qualche esempio, abbiamo ricevuto personalmente la stima di musicisti come Sonic Youth, Ben Chasny (Six Organs Of Admittance), James Murphy e Matmos (che ci hanno campionato su “Civil War” in due brani, senza nemmeno menzionarci nei crediti).
Quando ascolto certe vostre composizioni penso che sia stato davvero complesso pensarle e poi suonarle, solo per fare qualche esempio tra i tanti: “Infinito” e “Mutilati” (da Sinistri). Il primo è tutta una serie apparente di abbozzi, mentre l’altro sembra una versione rinsecchita di un pezzo funk di James Brown, che so apprezzate. Esagero nel paragone? C’era uno specifico modus operandi in fase di composizione? E qual è stata la molla che vi ha portato verso un approccio più “astratto” rispetto a quello maggiormente diretto degli esordi?
Roberto Bertacchini: Grazie per il paragone, a noi piace James Brown. Il modus era semplice, Manuel mi mandava in cassetta frammenti, pezzi di chitarra suonata, e noi in libertà assoluta agivamo sia sull’istinto improvvisato che classico, praticamente la molla del cambiamento per noi è stata del tutto naturale, ci siamo influenzati a vicenda. Ognuno di noi ascoltava musica diversa in quel periodo, e questo ha portato il suo contribuito sia musicale che culturale.
Alessandro Bocci: Paragonare le due tracce al sound di James Brown è ragionevolmente improbabile. Il disco “Sinistri” è stato composto pensando ad una rilettura rock della musica contemporanea. Ma ad ogni modo se trovi delle analogie con James Brown va bene così. L’approccio e il sound di derivazione funk è sicuramente riscontrabile in dischi come “Infinitive Sessions” e in “Free Pulse” con il progetto Sinistri. Il suono Starfuckers e il modus operandi sono una sorta di esperienza e di ricerca che si è sviluppata nel corso degli anni, e continua a mutare nel tempo, diciamo che la base è quella della ricerca di una pulsazione ritmica che si genera mediante l’utilizzo strategico del silenzio tra un evento sonoro e l’altro. Quello che tu chiami approccio astratto credo sia principalmente una conseguenza della ricerca del limite e del superamento dell’idea stessa di limite.
Manuel Giannini: Sinistri ha un modus operandi diverso da tutti gli altri nostri dischi, nelle intenzioni voleva essere un omaggio e un compendio, in chiave punk e rock, delle tecniche di composizione elaborate dalle avanguardie storiche del Novecento musicale. Per “Mutilati” direi di no, James Brown viene dopo, con “Infinitive Sessions”. “Mutilati” è un pezzo dodecafonico in tre movimenti, sempre nelle intenzioni, molto Anton Webern meets Steve Reich via The Rolling Stones. Ovviamente però, tu ci puoi sentire quello che vuoi. La “molla” è che, almeno io, dovevo fare così, non potevo fare altrimenti.
Riascoltando i dischi a distanza di anni devo dire che non sembrano invecchiati per niente, anzi (mi riferisco appunto alla fase più concettuale/improvvisativa, quella composta dai “frattali” di Infrantumi, Infinitive Sessions, e Free Pulse). Voi come vi vedete quando vi riascoltate, ora che è passato un bel po’ di tempo da quel periodo?
Roberto Bertacchini: È strano e bello. Innanzitutto senti veramente quello che noi in quel momento lì eravamo, in fase di ricerca quasi più personale che musicale e poi, lasciatemelo dire, eravamo dei fighi…
Alessandro Bocci: Non riascolto mai di proposito i vecchi dischi. Riascolto tutto il vecchio materiale per motivi tecnici, per re-edit in funzione di concerti, e come in questo periodo per la digitalizzazione su Bandcamp. Devo dirti che proprio in questo giorni ho riascoltato “30.0/31.0” tratta dalla compilation “Iamaphotographer” (con dentro Sun City Girls, Loren MazzaCane Connors, Amy Denio, Dean Roberts, ndr) e diciamo che sono rimasto piacevolmente sorpreso.
Manuel Giannini: Mah, quando dici che non sono invecchiati ci fai il miglior complimento che si possa fare. Naturalmente quando riascolto i dischi lo faccio raramente, e solo per esigenze legate ai concerti o alle ristampe. Li detesto, li sopporto o li gradisco, a seconda dei giorni.
Avete ottenuto la copertina su Blow Up (n.4 gen/feb 1998), e con gli anni è aumentato lo status di band culto. Cosa pensate abbia lasciato in eredità la vostra musica, e come pensate possa venir percepita ora, visto che l’underground italiano sembra muoversi verso una direzione diciamo più pauperista ed ancestrale? Alludo anche ad Italian Occult Psichedelia ed a molta elettronica “povera” di questi tempi.
Roberto Bertacchini: L’amore nei confronti di tutti gli esseri del pianeta, percepire vuol dire amore e passione.
Alessandro Bocci: Non seguo più “L’Eredità” di Carlo Conti su Rai 1 da diverso tempo. Giusto per non enfatizzare troppo… Probabilmente abbiamo influenzato diverse band e musicisti italiani nell’approccio e nelle possibilità di destrutturare le composizioni. Non saprei risponderti su come venga percepita ora.
Manuel Giannini: Non so, non abbiamo mai avuto un grosso successo di pubblico, se non nel breve periodo dopo l’uscita di “Infrantumi”, mi è capitato spesso però di incontrare musicisti, non solo italiani e anche di estrazione molto diversa, che venerano i nostri dischi come imprescindibili punti di svolta della loro evoluzione musicale. Della scena italiana che citi conosco bene solo BeMyDelay e In Zaire, che apprezzo e stimo.
Ovviamente col tempo avete messo in cantiere altri progetti personali e svariate collaborazioni (anche col collettivo Zimmerfrei di Massimo Carozzi, per esempio), parlatecene.
Alessandro Bocci: Da diversi anni produco e mi esibisco con il progetto M16. Il sound ha radici nella musica nera ricostruita su una matrice techno elettronica. Nel corso degli anni ho prodotto dischi per la Persistencebit, per la Self Defence con il moniker di Backslash, e per la Radical Matters. Ho anche un progetto sperimentale con il cantante Andrea Reali. Abbiamo inciso una traccia a nome di “Echoing” per la compilation della Niente Records dei genovesi St.Ride. Al momento ho in cantiere un nuovo progetto con un amico di vecchia data.
Manuel Giannini: Io ho in piedi solo un altro progetto: Weight And Treble (http://weightandtreble.bandcamp.com/) con Massimo Carozzi: facciamo musica elettronica con vecchi synth analogici ai confini tra la dance e l’avanguardia, esplicitamente influenzata dalla musica giamaicana. L’ultima cosa pubblicata vede la collaborazione di Sensational, leggendario musicista hip hop newyorchese: http://www.beatport.com/release/weight-and-treble-meets-sensational/1178614
Domanda per Roberto. So per certo che sei un grande collezionista di dischi (immagino lo siate tutti e tre…). Ti ho visto in uno showcase da Modo Infoshop nel febbraio 2012, eri in duo con Xabier Iriondo a nome The Shipwreck Bag Show, e per un attimo ho pensato: che modo strano di suonare che hanno, Bertacchini agisce in libertà come canta, e l’Afterhours va giù di pedali e di saturazione del suono (ti confesso che un caro amico invitato per l’occasione, ma non avvezzo a quel tipo di musica, mi prese per pazzo). Il duo esiste ancora o è in stand-by? Ho letto anche di un nuovo gruppo chiamato Cagna Schiumante…
Roberto Bertacchini: Per The Shipwreck Bag Show esce a fine anno un 10 pollici intitolato “Don Kixote “, Cagna Schiumante invece è un progetto con Xabier Iriondo e Stefano Pilia di musica improvvisata e popolare.
Un’ultima curiosità: ditemi cosa state ascoltando in questo periodo e consigliateci qualche uscita secondo voi degna di nota.
Roberto Bertacchini: Di nuovo ho trovato molto bello Bish Bosch di Scott Walker, come gruppo i Tiger Lillies, sempre un mio punto di riferimento specialmente per la voce, e poi ancora tanta musica passata.
Alessandro Bocci: Per attitudine cerco di rimanere con le orecchie sempre in ascolto. Esplorare e approfondire è la mia chiave di lettura.
Ecco i dischi:
Charles Cohen – “Group Motion” (Morphine Records)
Miles – “Faint Hearted” (Modern Love)
Madteo – “ReCast” (Marcellus Pittman/Kassem Mosse/Anthony Shakir remixes) (Meakusma)
Arthur Russel – “World Of Echo – remastered edition” (Audika Records)
Ø (Mika Vainio) – “Konstellaatio” (Sähkö Recordings).
Manuel Giannini: Mah, non saprei, credo che qualcosa di buono continui a venire dalla scena elettronica, anche se, a meno che non si tratti di dance, non apprezzo la musica live fatta solo con i computer. Dal vivo continuo a preferire il corpo, il movimento, e soprattutto il rischio che ci si prende a suonare senza materiale pre-registrato. Quando vedo qualcuno illuminato dallo schermo del Mac che manovra un mouse o un controller, quasi mai mi appassiono, perché non capisco quello che fa realmente, non capisco se suona, e quindi se rischia o se semplicemente preme start/stop. Insomma per me la musica live non può prescindere dal gesto e dal rischio, e se non c’è il gesto e non c’è il rischio mi suona monca, inutile. Ingiustamente comoda.
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