Tra le interessanti uscite cinematografiche di fine stagione, di cui ho parlato
qui pochi giorni fa, c'è sicuramente un film uscito già lo scorso 25 maggio ma passato abbastanza inosservato e dunque da recuperare in qualche modo (non deve essere troppo difficile, visto che in rete si trova più o meno da sei mesi). Si chiama
La fuga di Martha, in originale
Martha Marcy May Marlene, e l'ha diretto il giovane Sean Durkin (classe 1981), uno di cui molto probabilmente sentiremo ancora parlare e che magari, come è successo quest'anno a Jeff Nichols (classe 1978), ce lo ritroveremo in concorso a Cannes. Su La fuga di Martha, comunque, lo scorso anno ho pubblicato un pezzo su
Filmidee, che ripropongo qui per chi volesse leggerlo.
Ci sono parole che definiscono un periodo storico, che ne colgono ansie e prospettive. Una di queste – con particolare riferimento alla cultura americana – è “libertà”. Per via del romanzo di Jonathan Franzen, certo, che frantuma il monolitico totem creato in otto anni dalla politica di Bush, e anche per via di alcuni film visti quest’anno a Cannes (ndr: l'anno scorso, 2011). Uno era Take Shelter di Jeff Nichols, che oscurava il concetto di libertà illuminando di luce iperrealista quello speculare di paura (l’altra parola chiave del decennio), e un altro era Martha Marcy May Marlene di Sean Durkin, discesa anche in questo caso speculare in una duplice costrizione familiare, sia borghese sia settaria.
Il film dell’esordiente Durkin è uno dei pochi dedicati esplicitamente, senza il filtro horror degli anni ’70, alle sette di giovani americani, panteisti e violenti, che continuano a nascere soprattutto alle estremità occidentali e orientali del paese (qui siamo nelle Catskills, vicino New York). È un racconto indie, minimale e delicato, ma sotto la fragilità dei volti femminili, dentro l’ideale di pace comunitaria raccontato, nasconde la follia che due generazioni fa ha fatto precipitare i sogni della controcultura nell’orrore della violenza omicida.
Figlia dell’individualismo da un lato e del trascendentalismo dall’altro, la comunità settaria altro non è che la coscienza sporca della democrazia, una deriva che funziona da anticorpo. Idealmente è il mondo dell’alterità, della rinuncia assolutista, opposto al capitalismo e all’idea stessa di libertà socializzata. Nei fatti, invece, con la carica sessuale e spirituale di un guru alla Charles Manson a forgiare corpi e menti, attraverso l’annullamento dell’individuo impone una forma di libertà intesa come estremo sacrificio: la libertà del tutto contro la tirannia del singolo, come in fondo dicevano anche le nostre BR.
E in questo modo finisce per esercitare un pressione pari a quella della normalità borghese, ingabbiando la protagonista del film, una giovane ragazza in fuga dalla setta e dal retaggio familiare, in una triplice identità, quella dei tre nomi del titolo (Marcy May conta come uno), che la abbandona sulla scena come corpo indefinito.
Non c’è fuga dove non si fa altro che passare da una prigione all’altra. La vera libertà, come afferma il finale bellissimo, incerto, spaventoso, questo sì degno di un horror, è accettare il dubbio come condizione esistenziale. E chiedersi, in definitiva, non quale libertà desideriamo, ma quanta paura e quanta solitudine siamo disposti ad affrontare.