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Libia: il dibattito pacifista. Ma "il mio nome è mai più"?

Creato il 20 marzo 2011 da Marcotoresini
Ai mie tormenti notturni se il raid sulla Libia sia la strada corretta da percorrere. Al dilemma di un pacifista che ad ogni crisi internazionale, dalla prima guerra del Golfo al dopo Saddam, passando per il Kosovo, si chiede se esista mai una guerra giusta, risponde un mondo inquieto: quello dei pacifisti italiani, presi come sempre tra idealismo e ragion di Stato.
Mentre, guardando i bagliori dei primi missili partire alla volta di Tripoli e della Sirte, condividevo il mio dilemma, tanti altri erano tormentati dagli stessi dubbi. Così su facebook Giovanni Barletta da Poggio a Caiano (Prato) mi racconta di "voler stare dalla parte del torto", di aver postato sul suo blog, mentre io facevo altrettanto, i dubbi di uno con la testa che gli dice che si tratta di una guerra inevitabile e con lo stomaco che rema contro perchè in una guerra c'è sempre qualcuno che subisce. "La guerra può avere tutte le ragioni del mondo ma poi si fa sulla pelle, nella carne viva dei poveri cristi. - scrive - Cosa importa il cambio di regime, cosa importa la speranza stessa di miglioramento a chi guarda la bomba dalla parte del detonatore? A quelli che cercano inutilmente riparo dalle schegge intelligenti di una guerra speditagli da diecimila metri d’altezza? A quelli che hanno il torto di essere nel posto sbagliato?".
Un post da leggere, un contributo al dibattito importante per cercare di metabolizzare la dicotomia che ci opprime e che da pacifisti ci rende un po' schizofrenici e dissociati.

Gino Strada

Non ci resta che un granitico Gino Strada che al solito non ha dubbi e contraddizioni: "Il problema - ha detto parlando di Libia - è il ricorso allo strumento guerra. Io sono contrario alla guerra per tante ragioni, una delle quali è che sono italiano e ho una Costituzione che ripudia la guerra". Per non dire dell'analisi di Angelo Miotto su PeaceReporter (agenzia legata a Emergency e Misna) che si chiede alla vigilia del raid quanta propaganda stia dando benzina al fronte interventista. Una ricostruzione, quella di Miotto, che vale la pena di leggere per capire: "L'informazione - scrive - ha vissuto una sorta di black-out nei primi giorni, reso ancora più evidente dalle immagini ancora nei nostri occhi di piazza Tahrir. Poche informazioni e contraddittorie. Emittenti che hanno sparato cifre tremende sulla contabilità della repressione del dittatore libico. Al Arabya, ripresa da tutti i giornali italiani (noi ci siamo astenuti) arrivò a parlare di diecimila morti. In un solo giorno. Per poi calare alla chetichella nelle ore successive. I primi bombardamenti sulla folla senza prove evidenti. Gli insorti che scorrazzano a bordo di pick-up Toyota equipaggiati con armi che sarebbero, sarebbero, state prese nelle caserme dei militari passati con gli insorti.
Tutto questo senza sminuire la violenza della repressione del regime, le notizie sui mercenari arrivati in charter, le immagini drammatiche che sono arrivate dagli ospedali, le fonti mediche.
Ma il racconto di una rivoluzione non può sottostare al dubbio della propaganda.
E, fatte salve le cronache degli inviati e dei loro occhi a testimoniare, non si può negare che ci sia stata una forte accelerazione sull'opinione pubblica perché si prendesse un partito. E che questa strategia, ormai collaudata, portasse all'eventuale accettazione di un intervento armato. Che sta arrivando (il pezzo è stato scritto poco prima degli attacchi, ndr), in nome della risoluzione Onu che prevede una zona di non sorvolo, l'unica arma davvero determinante in uno scontro - lo ricordavano gli stessi insorti - che si gioca su ampie zone allo scoperto fra militari e aviazione che hanno gioco facile a martellare le roccaforti espugnate dai ribelli.
Di fronte alle due parti in lotta, l'intervento della comunità internazionale appare quasi liberatorio: come si fa a stare dalla parte di Gheddafi? La domanda appare retorica, oggi. Già. Ma ieri?
Come ha fatto il governo italiano, Silvio Berlusconi e la famosa finanza che non si pone certo problemi di etica, l'Europa e altri importanti Paesi amici di petrolio a tollerare, a stare con Gheddafi?
L'insorto che vuole liberare il territorio che presidia e il popolo disperato di chi attraversa deserti per approdare su spiagge e scogli europei non sono uomini eguali. I lager libici per migranti descritti così tante volte da inchieste e reportage, testimonianze dirette di violenze e torture, uccisioni, omicidi per abbandono nel deserto, tutto questo non ha provocato lo sdegno internazionale come ora accade.
Come si fa a baciare le mani al carnefice e guardiano del Grande bastione anti-immigrazione?
I motori dei jet si scaldano mentre scriviamo, la risposta tardiva della comunità internazionale è comunque arrivata, proprio quando - vero o falso che sia - i lealisti iniziavano a bombardare aeroporto e strade della città simbolo ribelle, Bengasi. Rimane quel sapore amaro dell'ineluttabilità di copioni già visti e del criminale gioco di finanza e potere che nutre le guerre".
Un sapore amaro che non puo' non alimentare i dilemmi di noi pacifisti, dannatamente idealisti, forse, ma altrettanto consapevoli che, come sempre, qualcuno sta decidendo per noi e forse tutto ciò non è la decisione migliore.



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