Quando finire un libro è una questione di principio e quando non finirlo una questione di piacere.
di missannanever
Lo scontro è antico, finire o non finire un libro. Una spaccatura profonda e definita, chi fa parte di una schiera è completamente intollerante a qualsiasi ragione che possa motivar il far parte dell’altra, linee rette che non si incontrano, mai. Non portare a termine una lettura è per molti un no-sense: l’opera è una concezione unitaria dello scrittore e in quanto tale se ne può esprimere un parere solo avendone una cognizione completa. Eppure di gente che non finisce i libri ce n’è, e parecchia. Con una certa periodicità saltano fuori indagini di mercato editoriale e sondaggi su quali sono i libri interrotti e mai recuperati, e il Corriere Della Sera una settimana fa è stato puntuale come un orologio svizzero. Prendendo spunto da una classifica inglese pubblicata sull’ edizione online del “The Guardian” viene riproposta al pubblico lettore la stessa domanda: quali sono libri mai finiti, abbandonati a loro stessi perché insopportabili, pesantissimi, difficili? Incuriosita vado a spulciare tra centinaia di commenti lasciati. Non mi stupisco di trovare tra gli impossibili i famosi indigeribili come “Ulisse” di Joyce, “Il pendolo di Foucault” di Eco, “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, citati mille volte nei commenti. Ad avvicinarsi al podio ci sono poi autori come Thomas Mann, Tolkien, il difficilissimo D’ Arrigo con il suo “Horcynus Orca” e con mio stupore Garcìa Marquez con “Cent’anni di solitudine”. Altra sorpresa è stato “Sulla strada” di Kerouac, libro cult della beat generation che nonostante i viaggi, sesso, droga e rock ‘n’ roll ha evidentemente tediato più lettori di quanto si potesse immaginare, mentre ho provato incredulità pura nel leggere che più volte è stato abbandonato “La versione di Barney”, libro così ironico e geniale da non stupirsi se ci si ritrova a sottrarre tempo a pranzo e cena per proseguire nella sua lettura . Un intervento insolito e diverso ha commentato con un elenco di libri di poesia, facendo ricordare che talvolta la profondità del verso è tale da essere impenetrabile, così oscura da raggiungere, che la lettura di un libro di poesia può risultare molto più difficile di qualsiasi astruso pastiche letterario. Tanti commenti, tanti autori, tantissimi libri interrotti. Ma l’apice di soddisfazione in questa curiosa ricerca è stato nel trovare in qualche commento, anche se non molti, il mio demone, il libro che ho dovuto leggere obbligatoriamente ma che avrei abbandonato al secondo capitolo, trecento pagine di pura violenza intellettuale che hanno minato il mio piacere per la lettura anche i giorni dopo averlo concluso, quando mi chiedevo se mai sarei riuscita a trovare il coraggio di riavvicinarmi alla carta stampata : “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Gadda. E’ piuttosto pretenzioso da parte di uno scrittore comporre un’ opera oggettivamente complessa, come è questo libro e come ce ne sono tanti altri, e aspettarsi che un lettore riesca ad arrivare alla fine. Non ho mai apprezzato l’esercizio di stile, lo sfoggio culturale fine a se stesso (discorso ovviamente a parte per le divulgazioni scientifiche) che diviene poi simbolo di quella categoria “pseudointellettuale” che si vanta di aver letto, riletto e adorato pagine impossibili la cui unica utilità è quella di curare l’insonnia. Davanti a forme di violenza della lettura decido di mantenere la mia posizione, probabilmente comoda e pigra, di leggere quello che voglio, quando e come dico io. Il tempo necessario per concedere qualche chances a libri che non convincono già dai primi capitoli e poi, in caso di conferma, chiudere. Assaggiare, interrompere, riscoprire, rivalutare, odiare o leggere d’un fiato, a nostro piacimento, senza costrizioni dell’ Io anche sul piacere di sfogliare pagine.
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