Il libro ci appariva perfetto. Non migliorabile, concluso, definitivo. Naturale, come qualcosa che non può essere altrimenti da com’è. Come un oggetto antico e familiare, semplice e levigato dal tempo. Come un cucchiaio, è stato autorevolmente detto. Una forma compiuta.
Credevamo che il libro – il nostro libro, quello che maneggiavamo tutti i giorni – fosse qualcosa di permanente, forse di perenne. Destinato a durare per sempre. Non ci sembrava immaginabile né una vita senza libri né una forma diversa del libro. E d’altra parte il fatto che qualcosa che aveva assunto la forma di libro duemila e cinquecento anni fa continuasse a esistere, e non solo nel senso puramente passivo di un reperto museale, ma in quello ben più vitale di un oggetto di compravendita, ci pareva una prova inconfutabile e una garanzia di sopravvivenza. Ma nel libro vedevamo anche una sorta di talismano, una promessa (o un’illusione) di durata, forse di eternità. Ed è stata questa, probabilmente, la ragione profonda che ha spinto personaggi i più disparati – cui la vita non aveva certo negato ogni genere di soddisfazioni – a voler comunque scrivere un libro. Per restare, per durare.
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I libri hanno sempre attraversato il tempo. Sono vivi, vitali, parlano con noi, ci insegnano, ci consolano. Sono pieni di parole e sono destinati a durare nel tempo.
La stampa è un tratto caratteristico e dominante della modernità. Il libro stampato è un oggetto a sé stante, un talismano, un utensile versatile, un emblema glorioso, una ricca felicità in grado di cambiare una vita.
Gian Arturo Ferrari, Libro, Bollati Boringhieri, 2014.