La morte è un argomento tabù. E questo ce lo stiamo dicendo da anni, ormai. Ma, forse, un’esperienza collocata ancora più ai margini, è la malattia. Quella che non ha risoluzione, ovviamente. Non sono un’esperta, non ho fatto ricerche, ma a pelle mi sento di dire che anche l’arte, la letteratura hanno riservato molta meno attenzione a questo argomento. E credo anche di poter dire che l’ironia, che è una delle chiavi di lettura che come SdL proviamo ad adottare nei confronti della morte, be’, con la malattia è difficile. Per me forse impossibile.
Clara Behrens, 6 febbraio 2004 e 3 marzo 2004. Ph. W. Schels
Se ci penso, faccio fatica a ritrovare elaborazioni di questa esperienza. Mi viene in mente Edvard Munch, e il suo celeberrimo La fanciulla malata. Mi viene in mente un romanzo straordinario di Emmanuel Carrère, intitolato Vite che non sono la mia che per buona parte si sofferma sull’agonia di una giovane donna malata di cancro e che al grande male non riesce a sopravvivere, lasciando un marito e dei figli piccoli. Mi viene in mente anche Pirandello, con L’uomo dal fiore in bocca. Ma nel complesso sull’argomento malattia mi dichiaro ignorante e forse anche più priva di difese, in barba al buon Epicuro e alle sue teorie sul dolore.
Per questo motivo il lavoro del fotografo tedesco Walter Schels mi ha colpita appena l’ho visto, un paio di anni fa. E mi è rimasto impresso. Schels ha scelto di lavorare su un argomento difficile come pochi altri: quel poco tempo che resta a un malato prima di andarsene, Life Before Death. Questo lavoro non lo ha svolto da solo, ma in compagnia di sua moglie, Beate Lakotta (giornalista per Der Spiegel), che si è occupata invece della raccolta delle testimonianze orali, di intervistare i malati negli ultimi giorni. Sullo stato delle cose. Sulla caducità. Sul dopo. Anzi no, sull’idea del dopo. È stato un modo insolito, e romanticissimo, di affrontare insieme la paura della separazione. Quando uno muore e l’altra gli sopravvive (se tutto va come dovrebbe andare: Schels è del 1936, sua moglie del 1965).
Barbara Gröne, 11 novembre 2003 e 22 novembre 2003. Ph. W. Schels
Il risultato di questo lavoro – condotto per un lungo tempo tra il 2002 e il 2005 – sono 26 coppie di ritratti in bianco e nero. Il primo realizzato nella fase della malattia, nell’approssimarsi della fine. Il secondo immediatamente dopo. Ritratti di uomini e donne conosciuti negli ospedali di Amburgo e Berlino e che, sorprendendo Schels e la moglie, hanno accettato di prendere parte al progetto. Sono ritratti intensissimi. Pieni di rughe espressive, occhi liquidi, malinconia. Consapevolezza. E poi pieni di sonno. Di palpebre chiuse dolcemente. Qualche capello scompigliato, come mosso da una brezza leggera. Tutte le tracce di malinconia dissolte. I rimpianti come dissipati.
E, ad accompagnare le foto, le parole di chi stava per morire. Clara Behrens, ad esempio, con il primo ritratto il 6 febbraio del 2004 e il secondo nemmeno un mese dopo, il 3 marzo: « Mi chiedo se è possibile avere una seconda possibilità nella vita. Non ne sono convinta. Sarò solo uno dei milioni, miliardi di granelli di sabbia nel deserto». O Barbara Gröne – primo ritratto l’11 novembre 2003, secondo ritratto il 22 dello stesso mese –, che per tutta la sua esistenza visse come se la vita l’avesse di fatto rifiutata. Difficile pensarla altrimenti, se da bambina vieni abbandonata da tua madre e se poi, quando hai imparato a camminare sulle tue gambe arriva lui, un cancro che non lascia scampo. O Roswitha Pacholleck, un’altra esistenza così infelice da portarla a dichiarare: «Godo di ogni giorno in cui mi trovo ancora qui. Prima d’ora la mia vita non era felice». A lei Schels scattò la prima foto il 31 dicembre 2002. Il secondo ritratto risale al 6 marzo del 2003. Roswitha non abbandonò mai la speranza: «Lo so, lo so che sto morendo, ma chi può dirlo? Può ancora accadere un miracolo». E altri ancora. Nomi, date, paure e speranze.
Roswitha Pacholleck, 31 dicembre 2002 e 6 marzo 2003. Ph. W. Schels
26 persone che possiamo conoscere solo a distanza, ma in modo intimo, perché ci hanno messi a parte dei loro ultimi pensieri. 26 persone che sono state esposte in una mostra alla Wellcome Collection di Londra, ormai molto tempo fa, e forse anche altrove. E che sono diventate i volti di un libro – solo in tedesco –, un libro denso, che racconta le vite, le morti, gli incontri: Noch mal leben vor dem Tod.
Per saperne di più, leggi l’articolo sul Guardian.