Dal momento che
Blu Notte è probabilmente la mia trasmissione preferita in assoluto (da grande voglio essere Silio Bozzi), succede abbastanza spesso che io e il caro T. si vada in macchina da qualche parte a passare la versione XXI secolo di una serata-pacciani: posticino semi-isolato, computer portatile, un bel filmetto, un tot di coccole. Coccole che, di solito, vengono interrotte dall’improvviso scatto di nervi del ragazzo, che scambia un sacchetto abbandonato per un maniaco sanguinario e realizza in un lampo che l’unica arma a nostra eventuale disposizione sarebbe il pessimo, pessimo aroma del profumo per ambienti imposto dalla sua genitrice, e decide di condurmi verso altri, meglio illuminati, lidi.
(E’ carino, lui!)
L’altra sera, in previsione di una seratina del genere, la Titolare aveva provveduto a procurarsi una copia di The Strangers. Copia che, con mio grande disappunto, si è poi rivelata per ciò che era veramente, ossia il pregevole
Anal Addicts #12. Non avendo altro a portata di mano, abbiamo deciso di guardare quello.
Ora, prima di riportare le mie impressioni su questo -ne sono certa- capolavoro della cinematografia per adulti, amerei condurvi per mano nella valle oscura delle mie esperienze passate di fruitrice di pornografia. Lasciate stare il pranzo al sacco, sarà un’escursione particolarmente breve (e, a tratti, anche un filino stomachevole). Cominciamo.
Il primo pene in movimento con cui una Titolare ancora giovinetta si sia trovata (catodicamente) faccia a faccia è stato quello di Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols, che sballonzola nudo e, realizzo a posteriori, grassoccio
di fronte all’obiettivo di Julian Temple. Quasi una decina di anni più tardi, posso anche aggiungere con sicurezza che quella è stata la prima e ultima volta in cui un maschio nudo che non fosse fisicamente presente mi ha suscitato un qualche tipo di emozione diversa dalla pura sorpresa (nel caso l’apparizione fosse inaspettata).
Questo perché, all’epoca, avevo una cotta tipicamente puberale per il soggetto in questione (
rectius: per la sua versione anni ’70), oltre che un’esperienza scarsissima nulla in fatto di peni e una disperata sete di plausibilità per quanto riguardava le mie nascenti fantasie erotiche (sì, sono una rompicazzi anche in questo campo. Prima di scambiarci anche solo un bacio, io e un giovane e prestante
Nick Cave ci impegnavamo in conversazioni brillanti che duravano minuti e minuti, e le circostanze dei nostri mirabolanti tete-a-tete non erano mai men che dettagliatissime e ultra-plausibili). Già da questa prima, scarsamente variegata esperienza (Jones non faceva altro che afferrare un po’ a casaccio una tizia, nuda anch’essa, ed aggirarsi moscio qua e là) si erano gettate le basi della mia sostanziale indifferenza alle pratiche sessuali che non mi vedono coinvolta in prima persona. Indifferenza che perdura, e trionfa tutt’ora, lasciandomi ironica e disincantata dove i registi e i produttori amerebbero immaginarmi eccitata e coinvolta (anzi, no, sono una
donna, con le tette
piccole: i produttori di porno non sospettano nemmeno che io esista, e se esisto non faccio per loro).
Avanti veloce, fino alla festa di Halloween del 2005, quando una quindicenne Titolare vestita da vampira (è l’unico costume che io abbia usato -Halloween, feste in maschera, Carnevale- per anni e anni e anni, visto che è l’unico che permette di mantenere una discreta gnocchitudine senza rinunciare all’incarnato malsano; poi purtroppo è arrivata Stephenie Meyer, e ho dovuto cambiare. Adesso mi vesto da groupie zombie, così riciclo le calze smagliate) si trova rannicchiata sul divano di un’amica, in compagnia di una manciata di compagni di classe di sesso assortito, completamente assorbita dalla visione del dvd porno più economico tra quelli disponibili per il noleggio (
Quel birichino dello zio Mario, capolavoro indiscusso, era purtroppo momentaneamente esaurito).
La scena si apriva su quattro aitanti ragazzotti dalla pelle scura e l’aria remissiva, a torso nudo, intenti ad impastare biscotti per
Natale (la ricorrenza si evinceva dai copricapi rossi con pon pon), la cui tranquilla operosità veniva turbata dall’ingresso di una coppia di scollacciate cavie di una scuola per acconciatori ipovedenti, le quali tentavano prima di attirare l’attenzione dei ragazzi suggendo lascivamente una vasta gamma di bastoncini di zucchero, e poi, vedendosi ignorate, procedevano a spogliarli direttamente e contro la loro volontà, rivelando organi genitali di dimensioni francamente eccessive, miracolosamente e subitamente ipereretti.
Le due prepotenti iniziavano poi, in un tripudio di manifestazioni di stupore in lingua crucca, a baloccarsi con l’armamentario del malcapitati, i quali sottostavano alle loro teutoniche pretese con l’espressione mite e rassegnata di chi non aspetta altro che l’occasione buona per tornare alla propria pacifica attività di preparatore di dolcini natalizi, ma nello stesso tempo non osa opporsi alla smania masturbatrice della bionda e massiccia prevaricatrice nella cui rete ha avuto la disgrazia di restare impigliato.
(Dopo aver riletto il resoconto appena terminato, mi sorge il dubbio che il sincopato ma per me inaccessibile dialogo tedesco offrisse un qualche tipo di spiegazione illuminante al tutto. Probabilmente i riluttanti cazzi in gola erano una metafora del difficile processo di integrazione linguistica dei migranti di seconda generazione nelle terre bavaresi, o cose così)
Il secondo vero film porno della mia carriera si fa attendere fino alla primavera del 2008, quando un duo di miei scoppiatissimi compagni di liceo produce, ad una festicciola, una copia su videocassetta nientemeno che di
Rocco e i predatori anali. La congiunzione nel titolo, lungi dall’essere una banale scelta stilistica, serve a dissimulare un vero e proprio
caveat: se vi aspettate di vedere all’opera un pene famoso, questo non è il titolo che fa per voi. Vi basti sapere che, mentre un discreto numero di predamenti anali simultanei ha luogo nel giardino della villa in cui è ambientata l’azione, l’eponimo Rocco, appena inquadrato, trascorre una buona decina di minuti accosciato di fianco al
laghetto delle carpe, preoccupandosi dell’adeguata alimentazione delle stesse. Vestito.
La sua svogliata partecipazione nominale alla pellicola avrà modo di concretizzarsi solo più tardi, quando sodomizzerà con un Cornetto Algida al (bleah) triplo cioccolato, peraltro semisciolto, una tizia i cui seni giganteschi, già oggetto di varie manovre pseudoerotiche con l’ausilio di prodotti industriali da freezer, sono coperti da una disgustosa mistura di gelato liquefatto e croccante pralinatura.
(Tra l’altro, inizio a sospettare che ai miei compagni -erano sempre gli stessi- piacessero i dolci, e non la figa. Il passo successivo sarebbe forse la raccolta dei dvd de La prova del cuoco, ma fortunatamente non c’è stato il tempo di raggiungere un simile grado di perversione)
La mia carriera di fruitrice di pornografia, salvo incursioni su YouPorn (un mio amico ci teneva a rendermi partecipe dell’esistenza dell’uomo con due peni) e spassosi ritrovamenti involontari (la rispettabile collezione di dvd amatoriali del padre di uno dei due pornomani dolciari di cui sopra), rischiava così di dirsi conclusa nel giro di un paio di visioni, se non fosse stato per l’errore di attribuzione di filename di cui parlavo all’inizio del post. Grazie all’amabile coglione che ha deciso di trarmi in inganno, quindi, la lista dei titoli da me recensibili si allunga vertiginosamente fino a toccare quota TRE. Ma bando alle chiacchiere.
Anal Addicts ha un punto forte, una caratteristica innegabile che ha permesso alla serie di arrivare trionfalmente al dodicesimo capitolo: la robustezza della trama, unita alla più coraggiosa sperimentazione metacinematografica. La storia è ambientata nell’ufficio di un produttore di film porno, davanti al quale (è un film ad episodi) sfilano una manciata di aspiranti pornoattori, ansiosi di mettere alla prova le proprie innate capacità recitative. Per coerenza, tutto quanto compare anche solo brevemente davanti alla telecamera è assolutamente e profondamente osceno, inclusa la cravatta del produttore, che per altro ricorda vagamente un giovane
Gigi Proietti.
Per la prima volta, il mio compagno spettatore era un soggetto per il cui pene provo un interesse praticamente sconfinato, e per la prima volta avevo la certezza che no, la pornografia continuava a farmi lo stesso effetto che mi fanno le previsioni del tempo al Tg Regione, a prescindere da chi mi sieda accanto, almeno fino a quando chi mi siede accanto rimane vestito e tendenzialmente ridanciano. Forte dello scarsissimo coinvolgimento dichiarato anche dalla mia adorata controparte (“tette fintissime e troppo grosse, ragazze brutte, non è esattamente il mio genere” “ah-
ah, quindi tu
hai un genere” “amore,
sono un maschio” “umph”), mi sono quindi accinta a visionare la pellicola con spirito critico, prendendo già piccoli appunti mentali per la modesta dissertazione che state giusto leggendo.
Ed è stato proprio a questo punto, checché ne dica il tizio dei Lùnapop, che la verità è emersa in tutta la sua incontrovertibile evidenza: gli uomini e le donne
non sono uguali. Non quando si parla di film porno, perlomeno.
Il primo episodio ha seguito di pochissimo l’inizio del film: la mia disanima divertita degli improbabili stili d’abbigliamento dei protagonisti è stata liquidata sul nascere con un perentorio
“Jules, è un porno
, a nessuno interessano i vestiti”. Lo stesso tono, tra il condiscendente e lo spazientito, è stato adoperato per ribattere alla mia sincera mancanza di fiducia nell’efficacia di un’abbondante quantità di bava leggermente schiumosa come metodo di rappresentazione simbolica pre-eiaculazione dello sperma (pare che ai ragazzi piaccia). Quando ho provato a parlare della bruttezza oggettiva delle vagine rasate un po’ alla cazzo di cane, con la fondamentale introduzione della figura dello Zerbino Pubico, ho trovato ad accogliermi un silenzio assordante. Quando ho sottolineato che le tette della terza provinata, oltre ad essere grosse in maniera quasi comica, erano rifatte così male che quella sinistra era addirittura
quadrata, non sono riuscita ad ottenere più che un mezzo grugnito di cortesia. Quando ho sghignazzato per la gonna di vinile tutta arrotolata a mo’ di ciambella intorno alla vita cicciotta della più
verasce delle aspiranti pornodive, ho ricevuto in cambio una breve occhiata perplessa.
Quando ho buttato lì che probabilmente quello che stavamo vedendo era un film per cripto-gay, comunque (erano circa tre minuti che buona parte dello schermo era occupato dal buco del sedere e dallo scroto dello stantuffatore di turno), però, la reazione è stata fulminea: nel giro di un secondo scarso il ragazzo ha provveduto a spegnere il computer, reclinare il sedile su cui mi trovavo io, slacciarmi il reggiseno ed infilarmi la lingua in bocca. Che poi era precisamente il risultato a cui -furbetta- miravo io.