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Liliana Zinetti: inediti

Da Narcyso

Stella o radice.
Comunque splendere.

zinetti 4
C’è sempre una vibrazione nei testi di Liliana Zinetti, qualcosa che arriva dal frusciare di foglie notturne, da un improvviso refolo di vento, e poi si trasforma in vibrazione della parola, portata, però, anche verso la sfera di competenza di un pensiero che riflette sulla condizione dell’umana pochezza.
Cosí il soggetto non si nasconde, anzi, direi che si espone, proprio come le foglie che vibrano tremando, sensibili alla promessa dell’amore come della morte, nello sfondo di una natura a volte minacciosa, altre volte accogliente, e comunque sempre dotata di un misterioso alfabeto da decifrare.
Non a caso questi inediti si concentrano sulla descrizione di un tra/passo – mondo dei vivi e mondo dei morti – perdita nell’esilio dei corpi che hanno bevuto l’acqua del Lete e hanno dimenticato. Coscienti, però, dell’avere dimenticato nell’unico modo possibile a chi è stato abbandonato: la ripetizione di gesti minimi, portatori essi stessi di storie, frammenti di pensieri ormai svuotati della propria luce. Inutile scrivere poesie se la parola non ci salva dal dolore. Meglio trovare un modo per splendere, ci dice Liliana Zinetti, splendere comunque.
Sebastiano Aglieco

D’altronde nessuna garanzia
che fossero loro.
W. Szymborska

Caronte traghetta anche gli amori morti?
Dove li conduce?
Bevvero forse l’acqua del Lete
perché un giorno non si riconobbero più.
Ma non ci sono prove
che prima si fossero conosciuti.
C’è chi li vide insieme e stupisce,
chi dice si dovesse perdonare
e queste sono prove inconfutabili
che guardare è diverso che vedere.
Dicono che lei fosse triste.
(Lei che un giorno aveva un nome,
ma troppo il tempo passato per ricordarlo)
Non capiscono, si interrogano curiosi.

Ma ogni domanda ne apre un’altra,
porte comunicanti e silenziose
affacciate sul buio.

**

È un vento strano questo vento,
reca cortili abbandonati, silenziosi.
Ti alzi, prendi il bicchiere per un brindisi
ai giorni a venire e guardi il fondo
come gli aruspici guardavano le viscere,
pensi che in fine la vita
non sarà che questo, ricordi ammucchiati
come cataste di legna, qualcuno che hai amato
e un giorno è andato via, il gesto
sulla fronte febbricitante di un figlio e
una carezza ritrosa e l’ultima domanda sarà
la prima nata sulle tue labbra bambine.
Ti chiederai a che è servito
aver guardato tanto, scritto poesie.
È un vento strano questo vento, scuote
perfino le parole. La poesia
è sangue nel bicchiere.
Muovono le foglie dell’acero
dei morti le voci tremanti.
Risponderanno?

Cielo che scende, depone
sul fianco dei monti un peso azzurro.
Così ho cullato nei miei fianchi
il mare, l’onda viva e il canto.

Cielo che scende, depone
polvere sul rosso dei papaveri.
Così ho veduto i ghiacciai
e alzarsi in volo il nero avvoltoio,
stretto tra le mani il bianco della neve.

Nella distanza ora è più chiaro
anche questo cielo
che scende liquido e mi fa
di colore e aria e vita.

Ho costruito paesaggi e strade
per ospitare la solitudine, per gli sguardi
dove i tetti non sanno volare
e il vuoto rimandano
di vite incompiute. Lui
era l’ombra nelle parole
rozza e maldestra, volta
alla mezzanotte dei morti
che il tocco di campane chiama a festa.

Essere cosa.

Accadde che l’immagine penetrò lo specchio.
Vi si stabilì incurante del suo patire
e degli scricchiolii, di un inutile contorcersi.
C’è una sofferenza che attiene anche agli oggetti.
Invano lo specchio tentò di cacciare
l’oscuro intruso, invano si sforzò di rimanere
intatto. Cedette, si frantumò
in minute schegge, così
lesta l’immagine scivolò via, si diresse altrove.

Ma era solamente uno specchio,
una cosa
e questa non è una poesia.

Non bastò un’anima in due
quando con spruzzi di luce
aprì gli occhi il giorno
e costretti lungamente nel gesto
dal taglio zampillò il buio.
Storia riletta da lontano, materia e macerie,
guano. Occhi, scorie di giorni
che qualcuno trasse dalla morchia
assieme al grido delle ossa.
Perdersi fu senza ritorno. Erano altri,
lo erano sempre stati.
Non si volsero più.
La memoria un’acqua
- ogni cosa spenta.

Io ero un’altra
in una storia d’altri.

Dove? Il luogo non è questo.
Le barche dondolano sull’acqua,
turbato è il cielo. Stilla umori grevi il salice.
Quanto vale una vita? Quante stelle,
pianeti? Domande! Non chiedermi nulla,
vieni, sia così, come una fine che non trova
la strada. Non ho saputo amare
perché troppo ho amato.
La curva del fianco, liscia,
tonda come un desiderio.
La carne si sfa.
Altissime le fiamme
bruciarono gli alberi, il cielo,
ogni ipotesi di paesaggio.
Sfere, comignoli, rami, carcasse
tutto una quieta polvere.1
Il luogo? È questo.

Questo e i vuoti
e le stelle impossibili.

1. Titolo del libro di Vivian Lamarque,Mondadori,1996

Chiedilo a Nietzsche

Dove andavo era il buio
le cime dei pioppi flagellate dalla pioggia.
Ora le pareti si stringono a me
con risatine sciocche, lascive.

(Diverrai bianca come noi. Erette
nell’inganno, sempre
più vicine verremo, ti porteremo
i nostri umori. D’ombre
crudeli e beffarde siamo intrise.
Hai sostenuto lo sguardo
dell’umana miseria e ora sono in te
laghi bui, mota che sale e sporca
ogni tuo gesto andato e mentre ride
il mondo rozzo
l’insensata vita cannibale
sul tuo volto sfiorito
è passata.)

*

Sfiorite rose fiammeggiano
nella notte. Una, bianca,
incontaminata. Che si alzi
altera in una luce di petali.
Un dono.

Lei arriva quando vuole, si siede
e accende una sigaretta. Mi guarda.
- Per molto tempo ti ho attesa.
Non risponde, sbuffa volute di fumo nell’aria.
- Parlami, dammi la misura del mio stare
ad attenderti come una risposta possibile.
Fissa un punto sulla parete bianca, tace.
Forse attende un mio gesto. Allungo la mano.
stringo il foglio. Lei si alza e nell’uscire si volta
rabbuiata.

- Nasco per morire dopo pochi versi, questa
la misura. La risposta esiste, ma tu, tu
non sai porre la domanda. La tua finitudine
ti condanna. Accendi il lume e prega, la notte
è buia e le stelle una rovina.
Non hai altre strade che il mio silenzio,
il bianco tra le parole .
Avrai coraggio?

*

Avremo scritto perché splendano le notti
e per giorni che nascono finiti, per il nulla
dopo le parole.
Rondini ai nidi dei versi, tenteremo il ritorno
dentro un cielo bianchissimo.
Sarà capire l’amore, eternare silenzi
per chi resta, fioriti
come il glicine nuvola
nel mare d’erbe azzurre
che ci crescerà sulle ossa

la chiave che gira nella toppa
- qui e ora – e spalanca
il cielo e il sapere la morte.

*

Stella o radice.
Comunque splendere.

Siamo sempre stati soli

Misuriamo gli abbandoni con le mani
sugli oggetti lasciati, la sciarpa
sul bracciolo lenta incerta
se scivolare a terra per la delizia del gatto.

Apre un ventaglio di strade
la cartografia dei vuoti
e poco importa
domani chi saremo, dove andremo
con tutte le assenze intorno
perché ci terrà la cautela
della preda che fiuta il predatore,
la consapevolezza
che niente è stato perduto.

Siamo sempre stati soli.

Hanno lasciato le orme vili della resa,
hanno abdicato. Nessuna direzione,
nessun padre.

Invano abbiamo chiesto l’acqua
per benedire i figli, per alzarli al cielo.

Ogni presenza è spezzata.
Pietra che macina pietra.

Lingua di foglie morte e devastati tetti.
La pioggia. Parole
le foglie fiammelle cadute dall’acero
rosse accese nel grigio di novembre
il cielo pietra dove scrivo gesti
con dita di sabbia,
la luce profonda del mare.
L’orlo azzurro teso
di giorni come panni
nel vento lievi
che dai monti scende
e mi porta via.

- Se ne è andata
aveva lo sguardo
di chi finalmente ha compreso.
Guarda, è una foglia rossa
nell’azzurro. Ora è libera, vola.
È puro colore. Aria. –

Una luce stonata filtra dalle fessure
finestra che apre un occhio
sulle cose finite ieri per un caso
o un corso del tempo che è tempo
questo senza padri, tempo di templi
e dèi falsi, cartamoneta e casta
erette come un fallo arrogante
distruzione d’anime senza terre da abitare.
Dove la grazia è maceria, scostàti
la dignità e il pensiero
avvoltoi volteggiano, scavano
col becco vorace
fin dove mai arreso gira
attorno al tornio disperato
chi resiste nel grido
d’una fabbrica di fame e dolore.
La vita si aggrappa tenace a un filo d’erba.
L’infanzia era una bugia crudele
e nessuna terra è promessa.
Questa terra di nessuno
questa nostra terra
brucia.


Pietra d’angolo

E ti scrivo da un cumulo di sere
che ho visto disabitare case
e l’artiglio del predatore ferire il cielo
e i fiumi cambiare il loro corso
divorando quiete rive
ti scrivo che alto resta l’allarme
perché gli orchi sono usciti dalle favole
e camminano per le strade della terra
e sempre ci saranno cristi da crocifiggere
persone nuvola che non ebbero cieli
ma voragini aperte ad ogni passo
poiché ogni sogno viene corrotto

e se ho ascoltato la voce dei boschi
e la pazienza dell’erba
spegnersi alla mercificazione ottusa
di anime svendute in saldi di fine stagione

oggi ti scrivo da un cumulo di macerie
che pure esiste chi alza
altissimi minareti di stelle e chiama
con la voce profonda del sangue

che ci salva, sotto un sole ostinato,
la forza di un nome che resiste,
pietra d’angolo di stagioni nuove
seme che spacca l’asfalto
e tra le pietre accende un fiore.

Liliana Zinetti


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