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Il guerriero dai capelli intrecciati si avvicinò alla donna che sedeva nei pressi del fuoco da campo, le porse un piatto di pane e formaggio e una coppa di vino ambrato, mostrandole un sorriso gentile, nonostante la sua faccia incutesse un certo timore. Una brutta cicatrice infatti gli deformava la metà del viso. Lei afferrò il piatto e il bicchiere senza ringraziare e tornò ad osservare le fiamme, persa in pensieri insondabili.
«Sei sicura di voler proseguire da sola?» chiese l’uomo che era rimasto immobile alle sue spalle.
«Mi rallenterete l’andatura, ed io devo raggiungere la montagna sacra il prima possibile» rispose la donna sorseggiando il suo vino.
«Molti pericoli si nascondono nelle Lande del Disordine… » insinuò il guerriero.
«Me la caverò…» tagliò corto lei. L’Arcon però insistette.
«È una spada magica quella?»
Lei gli scoccò uno sguardo glaciale. «La mia spada non riguarda né te né la tua comunità.» Per la prima volta Davinia si chiese se non avesse commesso un errore. Aveva bisogno di cibo e di una notte di riposo, prima di affrontare le terre selvagge che la separavano da Mountoor, perciò si era avvicinata, anche se malvolentieri, ad una tribù di Rednakes che si era accampata nei pressi di un fiume. I Rednakes erano Arcon atipici, alti e flessuosi, dalla carnagione lattea e gli occhi profondamente azzurri. I loro capelli erano il loro segno di riconoscimento, rossi come carboni ardenti, che usavano portare intrecciati dietro le spalle. La tribù contava una trentina di elementi, compreso uno shamano, con il quale Davinia aveva preferito non interagire. Aveva paura che le leggesse i pensieri e scoprisse i suoi intenti.
La spada nera era uno oggetto estremamente prezioso e lei sapeva di non potersi fidare di nessuno. La teneva in una lunga fodera legata alla schiena, ma dall’elsa che spuntava fuori era ben visibile la sua fattura. Grazie alle sue arti di maga avrebbe potuto tener testa ai guerrieri Rednakes, ma lo shamano poteva ostacolare il flusso della magia e renderla così una facile preda.
L’Arcon non disse più nulla e la lasciò in pace. La comunità si tenne a debita distanza da lei, rispettando il suo volere. Un paio di volte Davinia sentì gli occhi dello shamano puntati su di lei, e non fu una sensazione piacevole. Decise di mettersi a dormire prima del previsto, su un giaciglio non molto comodo nel pressi del fuoco. La stanchezza di due giorni ininterrotti di marcia la fecero cadere subito in un sonno profondo.
Fece sogni travagliati, che al mattino non riuscì a ricordare. Non si sentiva affatto riposata, ma non poteva indugiare ancora. Era ancora buio quando aprì gli occhi. Due uomini montavano la guardia mentre il resto della comunità dormiva ancora. Recuperò in fretta le sue cose, rivolse un gesto di saluto a una delle due guardie e poi si dileguò tra le ombre dell’ultimo margine della notte.
Cavalcò per buona parte della giornata successiva attraverso una valle a lei sconosciuta. Il Rednakes che le aveva portato da mangiare le aveva consigliato di imboccare quella via per raggiungere le Lande del Disordine, ma lei non si era fidata subito. Le aveva detto che avrebbe guadagnato un giorno abbondante di marcia, e il mattino successivo quella prospettiva le sembrò molto più attraente, perciò aveva lasciato la sua direzione per deviare attraverso la valle. Alla fine del sesto margine il territorio incominciò a cambiare rapidamente. Gli alberi divennero più bassi e più radi, la vegetazione sbiadì visibilmente e il terreno divenne più scuro. Stava entrando nelle Lande del Disordine.
Sapeva di non potersi fermare per la notte. Era troppo pericoloso accamparsi da soli in quelle terre selvagge, perciò continuò a cavalcare lentamente, sussurrando parole di conforto alla giumenta, che erano anche le parole di un incantesimo; il cavallo scalpitò come se un flusso di nuova energia lo avesse rinvigorito. Il silenzio della notte di Limbo era rotto soltanto da alcuni ululati lontani, che Davinia imparò presto ad ignorare, anzi, il lento procedere a cavallo e il suono dei lupi in sottofondo la fecero appisolare. Non riuscì a distinguere il fruscio che si avvicinava, un suono strisciante come la morte. Due troll, alti quasi il doppio di lei, figure umanoidi e muscolose ricoperte da una patina granulare del colore della sabbia, le piombarono davanti in tutta la loro possanza. La giumenta, forse anche lei distratta, scartò improvvisamente di lato. Davinia cercò di rimanere in sella aggrappandosi alle briglie, ma non ci riuscì e rovinò malamente sul terreno. I due mostri le furono sopra in un attimo.
Una vampata di luce le fuoriuscì dalla mano. Il primo troll si afferrò il volto, emettendo un verso agghiacciante, ma il secondo avversario calò pesantemente un pugno sul corpo della donna, un colpo che avrebbe spezzato le ossa di un bisonte. Davinia riuscì a voltarsi d’istinto, mostrando la schiena all’avversario. La mano del troll andò a colpire la lama della spada nera che si trovava sulla schiena della maga, e il dolore che lo ghermì venne risputato fuori insieme ad un urlo di disperazione. Il troll si allontanò dalla donna tenendosi la mano, e non riusciva a smetterla di urlare dal dolore. Davinia non poteva vedere la spada, ma la sentiva pulsare sulla schiena. Riuscì a rimettersi in piedi per affrontare il primo troll, quello che aveva cercato di accecare con la luce magica. Guidato dall’odio per chi gli aveva gettato negli occhi quella luce, il mostro arrancò verso la sua preda. Davinia pronunciò velocemente tre parole in bit, il terreno si aprì sotto i piedi della creatura e un attimo dopo la risucchiò, divorata in solo boccone dalla scura terra. La maga cercò rapidamente il secondo troll e lo scorse nella distanza. Stava allontanandosi velocemente sempre gridando per il dolore alla mano. La donna Elenty si chiese se quelle urla non avrebbero richiamato i membri di un’intera comunità di quelle infime creature. Cercò la sua cavalla, che per la paura si avviata lontano dal luogo dello scontro, e la chiamò con un fischio gentile, accompagnato da alcune parole segrete. Riprese il cammino dentro la notte strisciante delle Lande del Disordine, promettendo a se stessa di non abbassare più la guardia, per nessuna ragione al mondo.
Viaggiò per cinque giorni senza mai cambiare direzione, fermandosi solo un paio di volte per dare modo alla giumenta di riposare. Sapeva che il cavallo non ce l’avrebbe fatta. Neanche lei poteva ingannare per troppo tempo il programma stanchezza di Limbo, e il prezzo da pagare era comunque alto, ma non poteva farsi sorprendere nuovamente dai troll. Aveva avuto fortuna, lo sapeva. Se la spada non l’avesse protetta, quel colpo le sarebbe stato sicuramente fatale.
A metà del quinto giorno di viaggio attraverso quello spiacevole territorio, la sua cavalcatura stramazzò al suolo. Davinia riuscì a non farsi travolgere dalla caduta, recuperò le bisacce legate alla sella e proseguì imperterrita il cammino. Si sentiva le gambe come cera riscaldata. Quanto poteva continuare a piedi, si chiese, ma non riuscì a darsi una risposta, e continuò a camminare fino al primo margine della notte. Scalò un albero con le ultime forze rimastele e cercò un po’ di riposo nascosta nella chioma di una quercia malata. Nel frattempo la vegetazione si era fatta ancora più sofferente. Secondo i suoi calcoli avrebbe dovuto trovarsi ormai vicino al limitare della regione, ma da quanto poteva constatare dal colore dell’erba e delle foglie, i confini delle Lande del Disordine non erano per niente vicini. Si addormentò subito, nonostante la posizione scomoda, la durezza del suo giaciglio e le corde che la legavano al ramo per precauzione. Sprofondò in un sonno liquido, fatto di tenebra opprimente. Si svegliò due volte di soprassalto, con il cuore in gola e un’inesplicabile paura di annegare. Era come se il Telaio di Limbo fosse diventato un oceano di tenebra. Se non fosse stata così stanca ci avrebbe pensato due volte a riaddormentarsi, ma il sonno la rapì nuovamente e quando la luce del primo margine del giorno filtrò tra le foglie dell’albero, Davinia uscì dal sonno come riemergendo da un pozzo nero e profondo.
Qualcosa non andava, lo sapeva, perciò doveva affrettarsi. Rigenerata anche se solo parzialmente dalla stanchezza, la maga proseguì il suo cammino, un passo dopo l’altro. La spada che teneva sulla schiena aveva ricominciato ad emanare una specie di pulsazione, la stessa sensazione che aveva provato quando il troll l’aveva colpita, ma questa volta più soffusa e continua. Sembrava le stesse infondendo nuova energia. Cominciò a sveltire il passo e verso il terzo margine del giorno la vegetazione incominciò a cambiare, apparvero alcuni fiori ai lati del sentiero, gli alberi tornarono a colorarsi di verde e udì nuovamente gli uccelli, che avevano smesso di cantare cinque giorni prima. Corse allora Davinia, rigenerata da quel suono, motivata da qualcosa di nuovo che neanche lei riusciva a spiegarsi. Era vicina, lo sentiva. Presto avrebbe avvistato la montagna sacra, e poi laggiù avrebbe atteso la venuta del suo compagno di vita, Sawar. Avrebbe aspettato nascosta fino a che la fiamma del desiderio di vendetta innescata da Nicon non si sarebbe estinta nel cuore dell’Elenty, in un modo o nell’altro. Nessuno avrebbe potuto evitare lo scontro. Nicon e Sawar erano destinati ad incontrarsi di nuovo, sotto la montagna sacra, e solo uno dei due sarebbe uscito vivo da quel duello. Quello sarebbe stato il campione a cui lei avrebbe consegnato la spada nera.
Mentre pensava a questo, due cavalieri uscirono improvvisamente da una macchia di faggi alla sua destra e le si piazzarono davanti. Lei incominciò a fendere l’aria con le sue mani e a pronunciare le parole di un incantesimo letale, ma la frase le morì in gola quando l’elsa di una spada la colpì alla nuca. Davinia crollò in un buio ancora più profondo di quello esplorato nei suoi recenti sogni. Ebbe solo il tempo di pensare alla spada, e al suo fallimento. Poi fu la tenebra.
Immagine di Willoclick