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La trama (con parole mie): la Guerra di Secessione impazza negli Stati Uniti del 1865, e mentre cominciano a non contarsi più le vittime da entrambe le parti della barricata il Presidente Lincoln, eletto per la seconda volta, cerca di muovere ogni pedina politica possibile affinchè venga finalmente approvato dal Congresso l'emendamento che prevede l'abolizione della schiavitù, viatico fondamentale per una pace da troppo tempo inseguita.L'operazione, però, è più complessa di quanto non si possa pensare, e passa attraverso scambi di favori e continue trattative anche con l'opposizione, richiedendo il sacrificio, l'abnegazione ed il lavoro non soltanto del Presidente stesso, ma di tutti i suoi uomini più fidati.Nel frattempo, osserviamo quanto una figura adorata dall'opinione pubblica vivesse un'esistenza tormentata in seno alla famiglia, in un continuo rinnovarsi dei conflitti con la moglie - che non superò mai la morte di uno dei figli - e con il primogenito, ansioso di emanciparsi dalla scomoda figura paterna.
E così, anche quest'anno mi tocca.Era già capitato, nel pieno della corsa agli Oscar 2012, di dover dare fondo da queste parti alle bottigliate più selvagge all'indirizzo di quello che è stato, soprattutto negli anni ottanta, uno dei registi più importanti che l'immaginario collettivo mondiale degli appassionati della settima arte potesse sperare di ammirare: Steven Spielberg.Ormai in ombra da qualche anno, il regista di Cincinnati toccò il punto più basso - o almeno uno dei - della sua carriera con War horse, sbrodolata retorica senza dubbio girata da dio ma infarcita da talmente tanto zucchero da far rischiare il diabete anche al più reticente degli spettatori, oltre a far riconsiderare cose come Salvate il soldato Ryan praticamente pezzi di ghiaccio fatti pellicola senza alcuna concessione alla lacrima facile.Lincoln - e badate, perchè neppure il Cannibale oserà tanto - è anche peggio.Perchè è un film stantìo, moscio, noioso, autocelebrativo, che puzza di vecchio lontano un chilometro.Certo, è realizzato con tutti i crismi, fotografato da restare a bocca aperta - anche se il buon Steven, forse, pensa di essere diventato il Kubrick di Barry Lyndon: impresa impossibile, bello mio - da Janusz Kaminski, reso prezioso da un cast all star e da interpretazioni notevoli - su tutte, quella di James Spader, per nulla uno dei miei favoriti, ma in questa occasione fenomenale -, portato a termine con una perizia maniacale per i dettagli.
Eppure rappresenta un Cinema che ormai ha segnato il suo tempo, e che soltanto i Maestri - e ne sono rimasti pochi - sono in grado di portare sullo schermo senza risultare anacronistici e pomposi: perfino il tanto celebrato Daniel Day Lewis - attore fenomenale che ho sempre adorato - mi è parso fin troppo gigioneggiante nel suo rendere Lincoln un personaggio se non addirittura una macchietta.Un Cinema verboso, compiaciuto di se stesso, fintamente democratico e profondamente buonista, che fa di una morale soltanto suggerita il suo cavallo - neanche a farlo apposta - di battaglia e si spaccia per monumentale opera d'autore in grado di far credere allo spettatore occasionale di aver assistito ad un vero e proprio miracolo della settima arte.Tutte palle, signori miei, lasciatevelo dire.Osservando le immagini splendide firmate Spielberg scorrere mentre pregavo che le due ore e mezza giungessero al termine - rovinando, tra l'altro, anche quel poco di interessante che poteva esserci con un finale infarcito di retorica delle peggiori, una sorta di versione su pellicola delle sparate di Bono -, mi è tornato alla mente un personaggio interpretato dallo stesso protagonista di questo film ormai una decina d'anni or sono, Bill Cutting il macellaio nell'imperfetto eppure mitico Gangs of New York di Martin Scorsese.Bill, aquila spietata e volto di un'America che non guarda in faccia a nessuno perchè forgiata nella violenza ed abituata alla legge del più forte è tutto quello che questo Lincoln non ha il coraggio di essere e diventare: e non parlo dell'approccio politico e sotto le righe - almeno apparentemente -, degli intenti e del messaggio, dello spessore di uno dei Presidenti più importanti che gli States abbiano mai avuto - non per nulla finito assassinato -, ma della spocchia che il gioco del buon samaritano di Spielberg ben nasconde fingendo che tutto sia legato, in realtà, ad una sorta di omaggio alla politica democratica attuale e alle rivincite di Obama rispetto agli anni oscuri del regime bushista.Peccato che il mordente si perda tutto in intrighi di palazzo che non hanno nulla a che fare con la denuncia o il riscatto, la voglia di mostrare la forza della democrazia ed i suoi lati nascosti - per questo è decisamente più efficace l'ottimo Le idi di marzo -, quanto con il compiaciuto benessere da Fattoria degli animali all'interno della quale "tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri".In questo senso è assolutamente esemplare la vicenda del figlio maggiore di Lincoln, una delle poche cose interessanti della pellicola, che forse avrebbe fatto meglio a vertere sulle imperfezioni della vita privata del Presidente piuttosto che sui suoi verbosi racconti sempre pronti ad enfatizzare la sua presenza pubblica.Mi dispiace davvero, per Spielberg.Perchè la sua mano è sempre strepitosa, ma tutto quello che era rimasto della meraviglia è ormai da tempo sepolto come i ricordi di un grande Presidente che ormai fa parte della Storia.Caro Steven, se vuoi guardare avanti e puntare al futuro, sarà davvero il caso che tu ti possa liberare della forma per tornare allo stupore.
MrFord
"You may say I'm a dreamer
but I'm not the only one
I hope someday you'll join us
and the world will be as one."John Lennon - "Imagine" -
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