Mastico le parole a lungo. Le mastico e le assaporo. Ascolto come vibrino e come si arriccino sotto gli occhiali, certe nasali, come esplodano nelle labbra certe P, certe B. Altre, insidiose, sibilano solleticandomi il palato, lasciandomi un senso di ansia e sospetto.
Me le passo e ripasso in bocca per sentirne gusto e retrogusto. Evito le gutturali che fanno male, malissimo, grattano in gola.
Delle altre ne suggo avida il succo, come fossero frutti. È la mia lingua quella che schiocca, che coglie il sapore di questo andare che mi porta via, e mi fa cadere dentro ad una sorta di mantra.
Così cammino, cadenzando tonfi di suole e parole udite nei cortili, sussurrate dall’ombra fresca dei balconi fioriti, parole lette sui muri.
I primi cartelli bilingui mi hanno regalato tutte le K che ora calpesto. Sono sul monte Kraguojnca e vedo il Kladje, il Brieka. Di là, ad un Est che si tocca con l’indice, c’è il Krn, c’è Kobradin.
L’italiano – e forse l’Italia tutta intera – alla passerella pedonale sul Natisone, ha definitivamente abbandonato le mie orecchie e la mia bocca.
Salgo il bosco in silenzio guardando il ritmo ipnotico della punta dei miei scarponi. Bolle di luce danzano illuminandone i ganci metallici. La faggeta, ingombra di rami caduti negli anni, crepita di trascuratezza e di abbandono. Crocida profondamente all’ombra, nel bosco marcio; gracida acuta, all’uscita delle macchie verdi.
È un bestiario quello che affolla le mie orecchie.
Basta lo sfottò di un muratore dall’altro di un’impalcatura per lanciarmi addosso una manciata di vetri infranti di Z e di S, con una gamma di sfumature sconosciute, irreplicabili per la mia lingua. La mia lingua italiana, non malleabile, non preparata alle mille facce di questi cristalli, a questa palétte di possibili mélange di sonorità e sordità, ora batte e ribatte sugli incisivi, e si taglia. Sanguina.
Non è più un frutto succoso quello che ho in bocca. Ne avesse il nocciolo, ora lo sputerei sul sentiero. Lo slavo è acerbo, acido, un nespolo colto troppo presto.
Suoni e sapori accompagneranno giorno dopo giorno il mio attraversamento delle Prealpi e delle Alpi Giulie e mi porteranno verso nord, verso le nude rocce del Canin e verso sfumature di lingue friulane sempre più secche, come piccole nocciole cadute sui versanti scoscesi senza torrenti; e ancora verso altre, croccanti, ma non friabili, che mi si impasteranno nel palato come carrube dal sapore dolciastro, a tratti saturante; ne attraverserò altre ancora, stimolanti, speziate, piccanti come piante di pimento.
Il monte Nischiuàrch – guadagnato dopo una discesa ripidissima verso il Passo di Tanamea, Uccea, e alla successiva rassegnata erta – mi solleticherà il naso dal quel primo inaspettato starnuto da raffreddore da fieno, fino l’enclave indipendente dalle dieresi e dagli intervalli di quinta russa che è Val di Resia.
Incontrerò cani. Alla forestiera uscita dal bosco, madida di sudore, odorosa di resina e selvatico, e di giorni senza docce, ringhieranno: “Gnivizza, Cripizza, Carnizza, Stolvizza”, che a provare a pronunciarli tanto fan mostrare le gengive e i denti. Mi accompagneranno dall’entrata delle prime case, fino all’ultimo stavolo, orfano di greggi, sbrecciato dalle spire dei vari Orcolats, oramai dimenticati dalle genti e dalle favole, che qui son passati o che vi han soggiornato, trasformato ora in un ritrovo per bikers, dai balconi fertilizzati di chiassosi gerani altoatesini.
Andrò ancora e ancora, finché non troverò le gutturali.
Mi fermerò là, al confine austriaco.
Casera Nischiuàrch