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Linguaggi sepolti

Creato il 29 ottobre 2013 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
C'è un sottile filo rosso fra la nascita della nostra lingua nazionale, che chiamerò qui 'volgare', e le forme dell'arte medievale, un legame che era già solido e secolare nell'alto Medioevo e che affonda le proprie radici in un tempo più antico del latino e dell'arte romana ellenizzata.
Sia la lingua volgare che la scultura altomedievale, infatti, costituiscono due linguaggi (uno verbale, l'altro figurativo), che sono rimasti costanti nel tempo, caratterizzandosi come registri non ufficiali rispetto alle scelte culturali della classe dirigente romana. Al momento della loro nascita e crescita, la lingua della comunicazione colta era il latino e la forma artistica attraverso sui l'Impero rappresentava se stesso e la propria sensibilità, almeno dai tempi di Augusto, era costituita dalle forme dell'arte ellenistica.

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Rilievi del tempietto longobardo di Cividale del Friuli (VIII sec.)


Con il crollo dell'Impero e delle sue istituzioni, comprese quelle scolastiche, non avvenne alcuno stravolgimento rispetto a questi linguaggi. Il passaggio dal latino al volgare e dall'arte classica a quella medievale, dunque, non fu così improvviso e traumatico quanto può sembrare: non solo la transizione fu lenta e variegata nelle diverse aree del mondo romanizzato, ma non si trattò, di fatto, che di un semplice scambio. Eliminati i linguaggi ufficiali, non più legati ad un sistema politico e culturale di stampo romano, le forme espressive del popolo si imposero come norma comunicativa. L'Impero romano non era un'entità uniforme, bensì un crogiolo di lingue e culture unificate con grande successo, ma solo a livello superficiale: contatti extralinguistici (soprattutto nelle aree di confine e commerciali), diversi gradi di penetrazione delle istituzioni e sostrati che nessuna azione politica avrebbe potuto mai appianare agirono da sempre sotto quella buccia ufficiale, rimanendo spesso contenuti ad un livello popolare finché quella scorza pura ed equilibrata non venne tolta ad opera delle popolazioni barbariche.
I linguaggi ufficiali vennero prima indeboliti, poi fatti sparire o relegati a ristrette nicchie di comunicazione; il primo fu il destino dell'arte, in cui le forme popolari sostituirono quelle ellenistiche già alla fine del II secolo (come è evidente guardando all'arte antonina), il secondo fu riservato invece al latino, che divenne linguaggio prerogativo delle istituzioni giuridiche ed ecclesiastiche.

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Insegna di una venditrice di ortaggi e pollame proveniente da Ostia


Scomparse le forme di comunicazione legate al potere politico, si diffusero quelle che da sempre il popolo aveva utilizzato. La presenza di una forma di latino popolare molto diversa da quella classica è attestata fin dalle origini della civiltà romana ed è documentata da iscrizioni, dediche su oggetti di uso comune, dai graffiti pompeiani e da alcune aperture della produzione letteraria alle espressioni colloquiali e gergali (fino alla volgarità). Ciò avviene, ad esempio, nelle commedie di Plauto (III-II sec. a.C.), nelle satire e, soprattutto, nel Satyricon di Petronio (I sec. d.C.), all'interno del quale si trovano molte espressioni che preannunciano i modi espressivi dell'italiano (l'introduzione della struttura del passato prossimo a sostituzione del perfetto canonico, modi di dire, varianti popolari di termini che la normativa latina non ammetteva ecc.)[1].

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Rilievi del monumento funebre del fornaio Marcus Vergilius Eurysaces presso Porta Maggiore (Roma)


Similmente accade per l'arte, che, nel Medioevo, presenta un'emersione delle forme da sempre manifestate dalla produzione scultorea popolare. Nel I sec. a.C. troviamo a Roma numerosi esempi di un linguaggio figurativo che rifiuta il naturalismo e rappresenta figure completamente o quasi piatte, allineate in maniera paratattica e prive di qualsiasi regola di proporzione. R. Bianchi Bandinelli definisce questa forma di arte italica 'plebea', un perfetto corrispettivo del nome di 'volgare' cui si lega l'italiano nelle sue prime manifestazioni e ne spiega così la diffusione:
«Le eleganze e raffinatezza del neoatticismo di età augustea rimasero un fenomeno culturale di élite, non penetrarono, a modificarlo, nel vivo dello svolgimento artistico romano e rimasero, sostanzialmente, limitate alla capitale e alle opere provenienti da essa»[2]
Si può dunque vedere come la successione di latino e volgare, arte classica e arte tardo-antica e altomedievale sia un processo non solo non traumatico, ma, addirittura, il naturale e fisiologico sviluppo di una situazione di diglossia. Il linguaggio, d'altronde, non evolve mai in maniera improvvisa e inaspettata, ma semina a poco a poco i germi di ogni suo cambiamento.

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Rilievo da un sarcofago di Amiternum conservato a L'Aquila


Prima di passare a voi la parola su questo rapporto a lungo dimenticato, voglio ringraziare Giuseppe Ghigno, del blog La cerchia di Minosse, per aver fatto nascere in me l'idea di parlarvene; nello specifico, l'ispirazione è nata dal suo post La simmetrie imperfetta.
C.M.
NOTE:
[1] Suggerisco, per approfondire alcuni aspetti di queste varianti, l'articolo Il latino che parliamo, pubblicato in Studia Humanitatis Paideia. [2] R. Bianchi Bandinelli, Roma. L'arte romana nel centro del potere (Milano 1969), p.58.

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