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Liscio o lascio

Da Shappare
Da ieri sono in trasferta dalla nonna persiana. E’ una donna meravigliosa che non sente nemmeno con l’apparecchio acustico, parla un italiano tutto suo e non vede da un occhio. Ma soprattutto non si sa quanti anni abbia davvero, perché racconta sempre che in Persia le truccarono l’età sui documenti per farla sposare a 13 anni con mio nonno.
Mio nonno era suo cugino di primo grado e, se conosceste la mia famiglia, questo vi spiegherebbe moltissime cose.
Ogni volta che venivo a trovarla, negli anni passati, mi ragguagliava su quanti figli avesse già alla mia età; ultimamente, esauriti i sette figli, mi invitava invece a trovare un bravo ragazzo con cui accasarmi, non ricco ma nemmeno uno spiantato.
La scorsa volta mi ha chiesto di trasferirmi vicina a lei, quando mi sposo. E tra il pensiero del matrimonio e quello di Mestre, non sono più venuta da lei per mesi.
Quel che odio un po’ della mia famiglia, oltre al fatto che passano buona parte del loro tempo a rendermi la vita impossibile, è il distacco assoluto, anche spazio-temporale, e l’approssimazione, la confusione.
Persiani ma ebrei.
Nati in Iran ma non tutti.
Osservanti senza saper nulla della propria religione.
Mentre scrivo è venerdì, il sole è tramontato, mia nonna si è già battuta il petto ripetutamente per essersi dimenticata di accendere le candele di shabbat in tempo e ora ripone le sigarette che non fumerà fino a domani sera.
Ha riempito due contenitori enormi di riso e hodesh bodemjun che ho avanzato dal pranzo, ma sono porzioni da coorte, le dico, e lei mi ricorda che ho un fratello, perché nessuno ha il coraggio di dirle che non viviamo più insieme, altrimenti comincia a piangere davanti alla fotografia di papà e le viene un attacco di cuore.
Ceniamo con un po’ di formaggio, poi lei mette il collirio, si sistema come riesce indietreggiando sulla sedia e dice grazie a Dio. Mi invita a fare lo stesso e io shakr Hodà, dico, con tutta la titubanza di chi cerca di padroneggiare gutturali che non gli appartengono.
 
Stamane l’ho accompagnata dal parrucchiere: tra Donna moderna e la rassegna delle vecchie sul festival di Sanremo, mi ha convinta a tagliarmi i capelli, tanto l’avrei dovuto fare né più né meno al ritorno a Brescia.
In un salone con cinque parrucchiere donne si avvicina alla mia testa bagnata un giovane dall’occhio ceruleo, con delle forbici in mano e lo stesso nome del mio ragazzo (e quindi del 30% degli uomini con cui ho avuto una relazione sentimentale).
Mi osserva qualche minuto, mi sposta e risposta i capelli, li guarda da lontano, poi da vicino, indi nuovamente da lontano. Dopo un quarto d’ora asserisce: “Hai i capelli mossi”, ricordandomi Albanese-sommelier quando dice “è vino”. Alla luce della rivelazione del secolo inizia a parlarmi di lunghezze massime, intermedie, scalature, gonfiature mentre io ripeto inutilmente per venti minuti “taglia un po’ e basta”. Infine ce la fa e dopo il taglio mi affida a una ragazzina che visibilmente lo guarda con occhi a cuore, come ho potuto stabilire nell’ora di attesa. Questa inizia con molta fatica a tirarmi i capelli con il phon, perché non sia mai che una riccia esca dal parrucchiere riccia. Mentre ha domato a fatica le onde della metà destra della testa e la sinistra s’è oramai asciugata da sé, dice:
“Sei mossa?”
“Sai, prevedo un radioso futuro per te e il biondino”
“Come?”
“Niente”.
 
Poi torna il ragazzo e ho lui che mi stira con la piastra a destra e lei che mi stira con il phon a sinistra; contemporaneamente. Allora lo interpello:
“Scusa, come hai stabilito che sono i miei capelli?”
“Mossi”
“Ah, e in che città siamo?”
“Venezia. Perché?”
“Nulla, volevo sottolineare la genialità della tua eroica impresa”
“Come?”
“Niente”.
 
Di pomeriggio sono stata da mia zia, pidiellina convinta e candidata in Forza Italia fino a pochi anni fa; una zitella quasi sessantenne, acidissima e crudele, di quelle che avrebbero pesantemente bisogno di una bella relazione sessuale, per usare un gentil eufemismo. E se lo dico io che in lei vedo me stessa tra non molti anni, potete assolutamente credermi. Lì, in un negozio del centro di Mestre, ho assistito a una cosa atroce: un litigio tra lei e un suo amico leghista sul Cie che dovrebbero costruire a Campalto; e mia zia, persiana ebrea berlusconiana, era la più razzista e intollerante dei due titani di maggioranza.
Così l’ho portata in profumeria, perché sfogasse in creme e belletti la sua repressione.
Intanto che lei si perde tra i fard di Chanel, chiedo alla commessa un mascara volumizzante (evidentemente dopo il parrucchiere mi sono ricordata d’esser donna); quella me ne mostra alcuni che non mi convincono, poi ha una rivelazione e si dirige verso un espositore dicendo:
“Se invece vuoi proprio un bel pennellone…”
“Grazie, quello servirebbe a mia zia, qua”
“Come?”
“Niente”.

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