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Liti, vendette, rancori e riappacificazioni nella musica pop

Creato il 30 agosto 2013 da Stampalternativa

img_dg_newphp.jpegLiti, incomprensioni, zuffe, cattiverie e addirittura scontri fisici e carte bollate rappresentano un ambito tutt’altro che esiguo della musica pop. Ci sono le liti plateali, che tutti abbiamo seguito giorno per giorno, molte delle quali in grado di influenzare gli eventi della storia, e altre che si son dovute cercare, mettere insieme, collegare, per poi stabilirne il grado di autenticità. È possibile identificare addirittura delle macro-aree delle liti: denaro, donne, potere, droghe, schizofrenia e altre patologie.
A leggerle e a ricordarle così a grappoli, come ha fatto diligentemente Maurizio Targa, sembra che nella musica non si sia fatto altro che litigare. Un po’ è così, ma certo non deve essere così normale una qualsiasi forma di convivenza artistica precariamente legata a indole e umore. La capacità di Targa è stata proprio questa: piuttosto che compilare un dossieraggio da questurino, ha preferito orientarsi sulla “caratterialità” dei soggetti citati, scoprendo altarini non da poco.
Molti ben noti, altri meno, alcuni per niente.
È soprattutto all’interno dei gruppi che la litigiosità assume toni incresciosi, pesanti, poco nobili, forse perché le teste pensanti si moltiplicano e qualche volte assumono atteggiamenti di cui ci si pente. Occupandomi anche di jazz, devo dire che ancora una volta la cultura pop non ha inventato
proprio nulla. Molti dei musicisti di jazz hanno trascorso i loro migliori anni a prendersi a sberle. Letteralmente.
Jimmy e Tommy Dorsey, autentici assi dello swing bianco, dirigevano un’orchestra formidabile, ma per anni le orchestre sono state due, a causa di liti furibonde fra i due fratelli. Per non parlare dei pugni, dati e ricevuti, di Dizzy Gillespie, Charles Mingus, Miles Davis, tanto per rimanere ai più noti.
Nel libro di Targa ci sono tutti, ma ne vorrei ricordare un paio che mi hanno toccato personalmente, molto da vicino, sui quali posso riferire informazioni di prima mano.
È ben nota la vicenda di Brian Jones, sfortunato fondatore dei Rolling Stones, scomparso prematuramente il 3 luglio 1969. Soltanto poche settimane prima, Jones era stato fatto fuori dai suoi compagni, con cui aveva diviso tutto. Sette anni torridi e creativi, conclusi con un licenziamento senza stile. Ho sempre pensato che Jagger e soci avessero fatto una solenne porcata nei confronti di Jones, il quale certamente aveva colpe e responsabilità non da poco. Ebbi la conferma di questo fra il 1968 e i primi mesi del 1969, quando Keith Richards e Mick Jagger si facevano vedere molto spesso a Roma. Conoscevo Anita Pallemberg, cresciuta a Roma, la quale favorì quei soggiorni capitolini. Fu lei, infatti, a convincere Keith a prendere in affitto un attico in
via del Governo Vecchio, proprio dietro Piazza Navona. A Keith e Mick chiesi notizie di Brian Jones, il mio preferito del gruppo. Brutta domanda. Anita aveva lasciato Brian per Keith e dalle loro parole trapelava odio e rancore profondo e si capiva che, tutto sommato, aspettavano solo il
momento propizio per fargli la festa. E lo fecero. Per certi versi lui era la palla al piede del gruppo: passaporto ritirato, salute totalmente andata, stato mentale compromesso, egocentrismo e depressione. Ma Jones era anche il più creativo fra i cinque, «in grado di raccogliere per terra in studio qualsiasi strumento e suonarlo alla grande», come ha più volte ricordato Mick Jagger. Brian Jones andava difeso. Lui era la storia del gruppo, ma anche il futuro, perfettamente a suo agio con blues e rhythm and blues, ma anche in grado di anticipare elettronica e musica etnica, world e soundtrack per il cinema.
L’altro caso riguarda i Rokes, il gruppo inglese che sbarcò in Italia nel 1963, raccogliendo un successo straordinario. Si divisero nel 1971, dopo una serie di dischi sbagliati e soprattutto dopo che le liti avevano assunto toni parossistici. Shel Shapiro, il leader, aveva voglia di fare altro e fu lui a dare lo scossone definitivo. Fra lui e Johnny Charlton accadde qualcosa di irreparabile, credo inerente al marchio del gruppo e alla sua vendita. Sfasciarono il gruppo e smisero di parlarsi. Nell’ottobre del 2005, in occasione dei quarant’anni di Bandiera Gialla− la storica trasmissione di Gianni Boncompagni e Renzo Arbore −, organizzai uno special alla Rai direttamente nella sala A di via Asiago, dove Bandiera Giallaebbe la sua consacrazione. Tutti i dischi dei Rokes diventavano “gialli”, vincendo sistematicamente la gara, perciò pensai di invitarli, ma mi resi conto che sarebbe stata un’impresa impossibile. Allora, ignobilmente, organizzai un collegamento telefonico, intervistando prima Johnny, avvertendolo che c’era qualcuno che voleva salutarlo. Al telefono da Milano c’era Shel. Si salutarono, parlarono per cinque minuti in un cockney incomprensibile ai più e poi si salutarono. Dopo trentacinque anni. Oggi si risentono e ogni tanto si rivedono.

Dario Salvatori


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