Con ancora sedimentata nelle pupille la componente inventiva di Volchok (2009) che regalava più trovate di quante se ne possano rintracciare in un’annata cinematografica nostrana, la visione dell’opera seconda Zhit (2012) obbliga ad una riconsiderazione dei connotati registici di Sigarev. Quello sotto esame è un film di maggior complessità rispetto all’esordio, lo si comprende dalla corposità del plot che non è incentrato soltanto su un rapporto (era mamma-figlia) ma si tripartisce andando a tessere una coralità sui generis che ha come bussola orientante il misurarsi con la morte. Sigarev utilizza il paradosso: intitolare un film così e poi raccontare di tutt’altro (di suicidi, di morti violente) abbandonando le geometrie e la pulizia ottica di Volchok in favore di un realismo che quasi diventa iper, fissato sul corpo degli attori, prodigo di soggettive e sballottamenti. Degli slanci estrosi (magari anche immotivati, ma amen) si perdono un po’ le tracce, il tono, come sottolineato volutamente sulla locandina, è cupo, scolorito, d’essenza funebre, e pur essendoci episodi che vanno per conto loro (la faccenda della bicicletta) la cupola mortuaria che sigilla il quartiere non permette voli pindarici.
In Living Sigarev non investe più sul singolo fotogramma, sull’abbellimento estetico, ma ricerca la via alternativa nella scrittura. Laddove le spiegazioni stanno a zero il giovane cineasta sguazza nella a-razionalità degli accadimenti, creando uno spartito ambiguo che non dissiperà mai, neanche alla fine, le nebbie del dubbio. A differenza di due Autori come Reygadas (Silent Light, 2007) e Dumont (Hors Satan, 2011) che hanno visto nel cinema il sepolcro da cui far alzare il proprio Lazzaro ponendosi quindi come obiettivo quello di inscenare l’indeterminatezza del Miracolo, Sigarev si concentra su chi è testimone del prodigio gettando uno sguardo sì sulla parte umana ma in modo straniante, laterale, periferico, facendo dell’equilibrismo anche spericolato sul baratro dell’incomprensibilità. Però non scivola mai e il sottoscritto assicura che terminata la visione il film è cresciuto di pensiero in pensiero, rivelandosi una disamina originale sull’accettazione del lutto e del suo superamento, procedendo in maniera ondivaga, lasciando aperto l’enigma, non del film in sé, ma della mente che subisce il dolore.
Azzeccato l’etereo tema musicale.