Cosa c’è di meno allettante di una domenica pomeriggio a pranzo dai genitori, con tanto di visita di zii e prozii di cui non sei nemmeno sicuro di ricordare il nome, e la prospettiva di dover rispondere alle solite amene domande “madovelavori?” “matisposi?” “mamicuri?” “macomenonvaipiùamessa?” ecc.? Ben poco, ovviamente, ma se si ha l’accortezza di andare a letto tardi la sera prima si potrà beneficiare del Sopore Del Tiratardi Immaturo, e puntando tutto sulla compagnia del decenne cuginetto simpatico, si può ragionevolmente sperare di arrivare alle 4 di pomeriggio senza troppa fatica.
Mangiato, bevuto, arrivano i prozii con seguito di pastine. E di un libro. Autobiografico. Inaspettato.
La prozia-di-cui-non-ricordavo-esattamente-la-faccia, infatti, a dodici anni era entrata in un istituto per orfanelle (devo chiedere a mia mamma delucidazioni su questa parte, mi sembrava davvero troppo scortese uscirmene con un “Ah, non sapevo fossi orfana!”), dove ha trascorso il resto dell’infanzia insieme ad altre bambine nate fuori dai matrimoni, figlie di ragazze madri, di genitori che non potevano mantenere un’altra figlia, o genitori usciti di scena senza molte altre spiegazioni. Ora, a distanza di più di cinquant’anni, le “sorelle” ritrovandosi han deciso di raccogliere le loro testimonianze per raccontare quello che succedeva all’interno di quell’istituto ecclesiastico della provincia di Brescia. E, a suo dire, “quello che c’è scritto qui non è nemmeno un quarto di quello che succedeva davvero”.
E’ con incredibile tranquillità che così inizia a raccontarmi di punizioni corporali, umiliazioni pubbliche, infiniti cortei ai funerali dei “signorotti” a cui le piccole figlie di nessuno erano obbligate a partecipare, e tra un pasticcino e un caffè continua a snocciolare aneddoti sugli insulti ricevuti per anni, su come le più prese di mira fossero le figlie di due genitori separati (un vero scandalo all’epoca!), su come chi si ammalava non aveva diritto alla visita di un medico, perché tanto erano solo orfanelle, e se morivano nessuno le avrebbe piante, dal momento che i loro stessi genitori le avevano abbandonate “perché non vi volevano bene“. Il mio pasticcino, morso a metà, mi rigira in mano, finchè decido di appoggiarlo nel piatto, che tanto non ho più molta fame. Sfogliamo insieme il libro, guardiamo qualche foto, le riproduzioni del regolamento interno “che non veniva rispettato”, e sempre serenamente mi racconta di come, quando ora si ritrova con le sue sorelle ridono su quello che succedeva anni fa, perché la loro unica ma grandissima certezza era la solidarietà e l’amicizia che le legava in quella sfortuna, e che non le ha poi abbandonate.
Ora l’istituto è chiuso, tutte le suore sono morte e sepolte e nelle mani dell’Altissimo (mi auguro, e che siano mani pesanti). Le “ragazze”, uscite dal portone marrone che campeggia sulla copertina del libro, hanno seguito ognuna la loro vita: alcune si sono sposate, han figliato e ora fanno giocare i nipoti. Alcune son morte, alcune si sono incredibilmente fatte suore. Alcune sono uscite con le gambe ma non con la testa, hanno inseguito matrimoni disastrosi e “una serie di sfortune” di cui non ho voluto chiedere i dettagli.
Dopo qualche titubazione, faccio il mio commento da figlio del duemila:
“Qualche tempo fa ho visto un film, su una storia simile…”
“Ah sì? come si chiama, ce ne sono parecchi ora… Una volta non se ne parlava….”
“Era ambientato in un’orfanotrofio in Irlanda, dovrebbero essere stati gli stessi anni…”
E prima che potessi finir di dire il titolo del film, sempre pacatamente seduta al tavolo, mi interrompe:
“Sì, l’ho visto… ma la realtà era molto peggio”