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Il tipo di missione che di solito intraprendono guerrieri smaniosi di passare alla storia, e non piccole e dolci creature occupate a pianificare passeggiate nei boschi, confezionamento di torte, dolciumi e vivande prelibate, che rifuggono dalle avventure come cose “sconvenienti”, oltre che fastidiose. Bilbo, tuttavia, non è uno hobbit tradizionale. Una parte del suo animo, che arriva dai Tuc, gli avi materni, non vede l’ora di spingersi oltre i confini della Contea. Tuttavia, la sua parte Baggins, molto più tradizionale, gli fa cercare tutti i modi possibili per declinare l’invito, senza successo. Gandalf riesce a far leva su quella parte smaniosa di uscire del suo piccolo amico, e Bilbo si trova in viaggio verso l’ignoto. Il vero viaggio avviene nello hobbit. Tolkien lo tratteggia con umorismo, travestendolo da fiaba, alleggerendo il tono, e abbassandolo con comprensione di fronte ai risvolti bassi dell’animo delle creature coinvolte, soprattutto i nani. Bilbo viene “assunto” in questa avventura, con il ruolo di scassinatore: sarà colui che dovrà far entrare i nani nella Sala del Trono sotto la Montagna, dove si riposa Smaug il drago, possibilmente senza farsi scoprire dalla gentile bestiola. Poco importa che Bilbo non sappia nemmeno cosa voglia dire il termine...sarà lui ad accollarsi (del tutto involontariamente) la parte pericolosa del viaggio, per cui non è un problema loro. L’atteggiamento dei nani verso Bilbo sarà proprio questo, per la maggior parte del libro: pretendono di essere tirati fuori dai guai, lamentandosi della sua inefficacia quando non si rivela pronto e risolutore. Molto familiare come atteggiamento, vero? Almeno una volta, nella vita, ci è capitato di sperimentarlo, magari a nostre spese. Al di sotto del tono leggero di cantastorie, Tolkien mette in scena le caratteristiche più familiari degli spiriti umani, sia nel bene, sia nel male. I nani possono fare la figura di presuntuosi voltagabbana e viziati, ma Bilbo, dopo essersi sbarazzato dell’ingombrante nostalgia verso la sua calda e accogliente caverna hobbit abbandonata in tutta fretta, si rivela uno spirito pieno di risorse e di creatività coraggiosa. Sapendo di non avere molta altra scelta se non salvare la propria vita da orchi affamati, da un Gollum inquietante e adirato, e altre creature mostruose intenzionate a trasformarlo in pranzo, Bilbo pensa veloce, azzarda, concepisce e porta a termine piani, come se fosse un avventuriero consumato, e non un pacifico buongustaio amante della natura e dei ritmi lenti. Sperimenta il dolore di decisioni difficili, accetta di passare apparentemente da traditore, si arrabbia e comunica le sue emozioni in un modo senza precedenti. E’ quasi un romanzo di formazione, in cui l’eroe impara a conoscere se stesso per incoraggiare e aiutare gli altri. Il drago, alla fine, è quasi un banco di prova trascurabile. Preso di peso dalla tradizione della letteratura antica nordica, fa il verso al Beowulf anglosassone, e al Fafnir, il potente mutaforma dei carmi eddici, (e di conseguenza alla creatura muta e quasi senza importanza del ciclo dei Nibelunghi). È un grosso sbruffone, per quanto potente e temibile, ed è la causa della sua stessa rovina. In questa lettura recente ho visto Smaug come una sorta di parodia dei grossi draghi malvagi delle letterature nordiche antiche, dove c’era spazio solo per grandi sentimenti tragici, sia nel bene, sia nel male. Tolkien ha voluto sorridere un po’, attribuendo un risvolto cialtrone ad una figura da sempre nota e temuta per il suo potere e la sua malvagità, come il drago. E’ anche un modo per ridimensionare l’ignoto e il suo bagaglio di paure annesso: se lo si colora con l’umorismo, appare molto più piccolo e avvicinabile.
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