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Lo Hobbit di Peter Jackson

Creato il 19 marzo 2013 da Povna @povna

L’amica blogger Murasaki, anche lei tolkienana convinta, ha pubblicato una recensione assai lunga e appassionata della versione cinematografica dello Hobbit. Così la ‘povna ha deciso di prendere la palla al balzo. E – approfittando anche della concomitante discussione che si sta sviluppando in classe, insieme agli Anatri – decide di pubblicare il suo abbozzo di analisi, che giaceva in mente ‘povnae ormai da prima di natale.
Poiché le cose da dire sono tante, cerca di andare per punti. Con la premessa che non sarà, per scelta e necessità, esauriente. Aggettivo che del resto mal si adatta a ogni discussione tolkieniana.
Parte con una presa di posizione netta: alla ‘povna il film è piaciuto (come già era accaduto per la trilogia del Signore degli anelli). Perché, da studiosa di letteratura, quando guarda un film dalla sceneggiatura non originale (come questo) ha ben presente che si tratta – tra pellicola e carta – di due testi diversi. Ma anche, e soprattutto, ha molto apprezzato la scelta fatta dal regista, Peter Jackson, che, posto di fronte a una operazione complessa – confrontarsi cioè, contemporaneamente, con il romanzo di Tolkien, ma anche con la sua stessa versione filmica del Signore degli anelli, divenuta ormai un classico – è riuscito, a suo giudizio, a mediare le diverse istanze, costruendo un prodotto che, tra i film e i romanzi, si colloca correttamente a metà strada. In particolare, alla ‘povna ha convinto la volontà di Jackson di fantasyzzare (absit iniuria verbis) Lo hobbit, giocando con le attese dei lettori/spettatori. In altre parole, a lei sembra che questo film riveli una profonda (e buona) riflessione del regista sui generi letterari ai quali appartengono, rispettivamente, sia il Signore degli anelli sia Lo hobbit. E che Jackson – dovendo fare riferimento a una trama e ad argomenti (lo scontro tra Bene e Male, gli eroi, la Terra di Mezzo) che la maggior parte del suo pubblico già conosceva in modalità del tutto fantasy – abbia deciso di costruire Lo hobbit sfumando volontariamente l’ossatura più fiabesca; e inserendo viceversa una serie di elementi eroici, allo scopo di creare un raccordo con la trilogia flimica precedente, e dunque non deludere le aspettative dei suoi spettatori.
La riflessione sul film può essere così articolata soprattutto su tre punti, che la ‘povna prova, rapidamente, a illustrare.

1) Vi è, prima di tutto, la questione del genere: che cosa è Lo hobbit romanzo? Fiaba, Epica o Fantasy? Come ha spiegato in questi giorni agli Anatri (ai quali ho rivelato l’esistenza di Albero e foglia e del saggio Sulle fiabe), il fatto che Tolkien sia stato uno studioso di -lore (folklore, childlore, etc) e di romanzesco cambia la prospettiva rispetto alla possibile appartenenza di genere sia dello Hobbit, sia del Signore degli anelli. Perché lo scrittore, e critico, era consapevole di fare un’operazione colta, ricreando a tavolino, e mescolando, modi diversi che la tradizione medievale aveva di declinare il concetto di avventura e di eroismo. Questo significa, in parole povere, che le differenze ci sono, certo, ma sfumano l’una nell’altra. Del resto, anche i due generi del romanzo cavalleresco e dell’epica (di cui Tolkien era specialista) erano parecchio collegati, nella letteratura medievale. Dando per acclarato che nel Signore degli anelli arrivi a compimento il nuovo genere, è ovvio che Lo Hobbit libro, pur essendo di fatto molto poco fantasy, abbia qua e là delle anticipazioni di slancio verso quell’invenzione. E quelle anticipazioni sono proprio date, già nel testo, dalla mescolanza di forme semplici fiabesche con la vis epica della saga e con la sua lunghezza (la vera differenza rispetto alla fiaba tradizionale). Tematicamente, è dell’epica l’importanza data alla dialettica tra avventura e nostos (il motivo del ritorno) – un tema che sotto traccia si ritrova sempre in Bilbo, per il quale l’ansia di romanzesco avventuroso si scontra costantemente con il pensiero della “casa”. (Ed è qui che peraltro si vede anche la contaminazione colta con il genere fondatore dell’Inghilterra borghese per eccellenza, vale a dire il romanzo di formazione). E’ anche dell’epica – pensa la ‘povma (e l’Odissea in questo avrà parecchio da dire anche al Signore degli anelli) – l’insistenza sul carattere ‘meta’ del racconto (e dunque il finale a specchio, del libro che si chiude su se stesso, con il personaggio protagonista che diventa narratore).

2) Il film di Jackson, in questa prospettiva, riprende quelli che nello Hobbit sono ancora solo accenni, per quanto espliciti, e li rideclina in una versione più marcata di genere. Ovvero (in altri termini) succede che Jackson – forzato dalla successione cronologica della realizzazione dei due progetti filmici (Signore e Hobbit), invertita rispetto sia a fabula sia a intreccio tolkieniano originale, e legato anche e se possibile di più dal fatto di esserne lo stesso regista – si trova a fare i conti con una questione inaggirabile. E cioè:
- da un lato, la lettera del testo di cui deve fare l’adattamento propone un mondo (la Terra di Mezzo) precedente a quello del Signore degli Anelli per tutta una serie di aspetti (nello Hobbit c’è ancora meno pericolo, meno decadenza morale, meno male, meno senso di ineluttabilità storica – tutto è ancora più aperto);
- dall’altro si deve rivolgere a un narratario (uno spettatore ideale) assai diverso dal narratario dello Hobbit originale (perché il lettore ideale di quest’ultimo era un pubblico anche e soprattutto bambino, che non sapeva niente di Terra di mezzo e di fantasy; mentre lo spettatore ideale dello Hobbit film, viceversa, è qualcuno che conosce di solito la trilogia filmica del Signore degli anelli, e la cui conoscenza e aspettativa del mondo tolkieniano è stata per di più plasmata dallo stesso Jackson). A complicare la situazione, al narratario dello Hobbit film si aggiunge anche il gruppo degli affezionati fanatici di Tolkien, che viceversa sanno tutto dei libri e che vanno al cinema sfoderando le armi di un’affilata acribia filologica – pronti a sottoporre a analisi ogni differenza, anche minima, rispetto all’amato romanzo (e soprattutto a criticare). Trovandosi a dover accontentare tutti, Jackson ha scelto dunque la strada di ‘epicizzare’ ulteriormente e ‘fantasyzzare’ lo Hobbit, in modo da rivolgersi, da un lato, al narratario che si è tolkienizzato al cinema, ma di farlo, dall’altro, usando soprattutto materiali d’autore, tratti Appendici e dal corpus della Terra di Mezzo (con ciò chiamando in causa i filologi e puristi tolkienani).

3) Si tratta di un’operazione che la ‘povna ha trovato, dal canto suo, decisamente interessante – e anche raffinata, nella sostanza. Perché sceglie di mantenere la trama del film su un costante doppio codice, nel quale lo spettatore filmico si diverte, e gode e basta; mentre lo spettatore/lettore tolkieniano può apprezzare e commentare l’uso in sceneggiatura di altri materiali. Ma, come tutte le scelte di regia che sono forti, e idiosincratiche, può aprirsi a mille e una considerazioni critiche (sulla fedeltà, sul cambio genere, sui raccordi tra le due opere) – specie considerando il fanatismo di fondo che spesso caratterizza il fandom tolkieniano.
Lei, in ogni caso, si è divertita, e molto. E ne ha tratto ispirazione per continuare il percorso sugli adattamenti, che condivide quest’anno coi suoi primini-Anatroccoli. E infatti, dopo aver letto il romanzo per tutto il corso dell’inverno, tutti loro si apprestano, adesso, a godersi la pellicola. E – se le rose annunciate, come previsto, fioriranno – la ‘povna è abbastanza convinta che non mancheranno, intuitive e intelligenti, un bel po’ di osservazioni.


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