Magazine Cinema
di: P. Jackson
con: M. Freeman, I. McKellen, R. Armitage, I. Holm, C. Lee
- USA/NZ 2012 -
170'
La bellezza dell'opera di J.R.R. Tolkien - al netto delle inclinazioni e delle
sensibilità dei singoli che vi si avvicinano - sta nel gesto estetico,
temerario quanto caparbio, di aver forgiato una cosmogonia, un universo
completo, con le sue ere temporali, i paesaggi, i popoli, addirittura i
molteplici linguaggi che consentono ad un mondo di esistere e di trasformarsi.
Su una scala diversa, il tentativo portato avanti in questi anni dal
neozelandese Peter Jackson, mira ad un traguardo simile: costruire un'opera
"monstre" che, al tempo, s'ispiri e rispetti almeno il nucleo essenziale del
testo di riferimento (inserendovi aggiustamenti, digressioni, licenze) e si
esprima in un suo originale idioma, in grado di tenere insieme e far risuonare
con armonia, avventura fantastica, lirismo fiabesco, toni da commedia,
riflessione sul Bene e sul Male, azione pura.
In questo "Lo Hobbit", primo assaggio di una seconda trilogia dopo i fasti
planetari di una prima realizzata a partire da quello che Tolkien considerava
un unico libro - "Il Signore degli Anelli" - assistiamo pero', contrariamente
alle premesse, a qualcosa che via via si rivela poco inaspettato, a ciò che, a
momenti alterni, era emerso anche nelle visioni precedenti: splendidi momenti
d'invenzione fantastica e progressione narrativa vorticosa intervallate da
lunghe parentesi statiche, in un ciclo che, tra cime innevate, orridi senza
fondo, sterminate vallate battute dal sole radente del mattino e da quello
stanco del crepuscolo, foreste fittissime, come aggrovigliate in un gigantesco
abbraccio, Bilbo Baggins, Gandalf/protoMerlino, draghi, nani, elfi, orchi,
troll, tende continuamente a tornare su se stesso.
Indipendentemente dall'aver costruito tre opere (le altre due arriveranno a
cadenza, come vuole sua maestà il mercato) di durata consistente da un corpo
letterario di poco più di trecento pagine - cosa, in se', non necessariamente
una pecca - nel film Jackson ripropone (spesso con sequenze tra loro molto
simili) l'identico e già collaudato schema "ad elastico" del tipo pausa-
riflessione-spiegazione/
azione-catastrofe-scontro reiterato negli altri
capitoli della serie, spezzettando la fluidità narrativa in una sorta di
altalena guidata delle emozioni, per cui alla sarabanda virtuosistica in stile
spielberghiano di certe scene tratteggiate come un coloratissimo ottovolante,
s'incastra la divagazione interlocutoria sullo stato dell'avventura nei modi di
una sorta di riassunto/aggiornamento della situazione, utile solo a creare,
nemmeno tanto subliminalmente, rimandi e agganci con gli episodi di questa che
oramai potremmo definire - e non e' una forzatura - una unica "super saga".
L'indubbio talento visivo di Jackson (pensiamo, per restare nei paraggi, al
troppo repentinamente archiviato "Amabili resti", del 2009, sintesi di numerose
spinte interne al suo cinema), forse proprio per le "dimensioni" stesse
dell'opera, per questa sua specie di inderogabile linea guida interna, si fa
allora spazio a tratti, sgomita in inquadrature dense di cromatismi vistosi,
negli infiniti dettagli di un paesaggio pazzesco, al di la' del meraviglioso -
quello neozelandese esaltato ancora di più dall'iperdefinizione dell'immagine a
48 fotogrammi al secondo - fa capolino nel gusto rabelaisiano volutamente
grezzo e diretto per il grottesco e il deforme (si veda, per esempio la
tendenza a "vestire" i personaggi di lunghe barbe, capelli fluenti, abiti
ingombranti e pesanti, addirittura concrezioni organiche: un unico grande
insieme vivente che sembra in diretta continuità con le escrescenze vegetali,
ramificate, avviluppate, pronte ad intrufolarsi ovunque, a costruire una sorta
di tutt'uno organico - un mondo appunto, la galassia-lontana-lontana di Jackson
- tra corpi, piante, case, rocce, acqua); si nota nell'occhio sarcastico per il
macabro, nell'allusione ad un soprannaturale tutt'altro che consolatorio:
emerge in rapidi tocchi horror. Ma sono perlopiu dettagli. Roba da fissati o da
esteti inguaribili. Troppo scarsi gli indizi, troppo labili e incoerenti,
facilmente assimilati dall'enorme mastodonte spettacolare che poco concede ad
un vaglio più esigente. Un film del gigantismo de "Lo Hobbit", come del resto
quelli della precedente trilogia, s'impone, insomma, di pura stazza: nel caso,
intrattiene nonostante le lungaggini, pure se immedesimazione e coinvolgimento
sono sporadici e alterni. In attesa delle ulteriori potenziali sei ore e passa
dei prossimi appuntamenti, può bastare immaginarsi il professor Tolkien che
esce dalla sala stiracchiandosi e facendo tap tap con la pipa sul dorso della
mano.
TheFisherKing
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