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Lo schermo del potere

Creato il 06 marzo 2013 da Femminileplurale

Ovvero: cosa vogliono le immagini da me?

“La domanda originaria del desiderio

non è direttamente ‘cosa voglio?’

ma ‘che cosa vogliono gli altri da me?cosa vedono in me?’

S. Žižek


Ho letto con interesse il libro scritto da Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi.  Si tratta di una analisi accurata e, per certi aspetti,

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originale del significato politico della costruzione dell’immagine femminile. Questa si mostra come strumento privilegiato di un potere che, costruendo differenze, fornisce un terreno solido su cui poggia il suo ordine, e quindi la sua stabilità. Ma andiamo con ordine.

Punto di partenza della riflessione delle due autrici è, da un lato, la situazione dei media italiani e la loro rappresentazione della ‘donna’ come oggetto sessuale, dall’altro il modo in cui essa è stata vista ed interpretata da alcune donne. Il riferimento polemico principale del libro è rappresentato dal documentario di Lorella Zanardo.

Nella prospettiva che, secondo le autrici, viene elaborata nel video ‘Il corpo delle donne‘, l’immaginario televisivo italiano oltre che essere profondamente sessista per le immagini che propone, offuscherebbe anche la vera realtà della donna. I media, secondo Zanardo, nel rappresentare la donna in un certo modo opererebbero una mistificazione e un nascondimento della vera realtà.

L’immagine, prodotta dalla tv, viene vista qui come qualcosa di antitetico rispetto al reale: da un lato quindi, ci sono le donne rappresentate dai media, dall’altro ci sarebbero le donne vere e reali. Nella costruzione di questa dicotomia, di fronte allo stereotipo prodotto e costruito dai media, viene posto, secondo le autrici, un altro stereotipo, ugualmente potente, quello delle donne reali, costruite secondo canoni opposti rispetto a quelli espressi da tv e giornali. In questa lettura, secondo le autrici, si rischia così costantemente di scivolare “dalla denuncia alla rivendicazione di una normalità che viene costruita proprio in opposizione all’eccesso mediatico”.

Nel documentario di Zanardo, nell’insieme di ciò che viene detto fuoricampo e ciò che viene mostrato dallo scorrere continuo delle immagini, l’opposizione alla rappresentazione dei media fa emergere, in negativo, la costruzione di una verità sull’essenza della donna, come soggetto unitario definito da un’identità di genere fissa e stabile, uno stereotipo appunto.

Questa presunta identità di genere, opposta alla rappresentazione mediatica, trova la sua radice e la sua parzialità in una certa, specifica, dimensione sociale e culturale. La donna di Zanardo sarebbe la donna bianca, borghese ed eterosessuale e la sua definizione di dignità corrispondente a quella rivendicata da donne nate in ceti sociali protetti, dotate di una certa cultura e posizione. Ciò che il video nasconderebbe sarebbe allora la disparità sociale tra le donne protagoniste dei festini berlusconiani, donne giovani e precarie nel senso più pieno del termine, e le altre, quelle nate negli anni del boom economico.

Fatta questa constatazione le autrici proseguono mostrando come all’origine del documentario ci sia un fraintendimento circa il significato stesso delle immagini, del visuale in quanto tale e del suo rapporto con il potere. Il visuale, spiegano le autrici “emerge come il luogo in cui interagisono lo sguardo e il desiderio” (p. 20). Se il visuale è direttamente connesso con il desiderio, questo si connette inevitabilmente con la sessualità, che diventa il campo privilegiato su cui costruire un immaginario specifico volto a costruire le identità di genere, a ‘produrre’ il soggetto ‘donna’. In questo modo si mostra in maniera evidente il legame con il potere e la sua forza ordinante e normalizzante. Il genere è una categoria del potere, costruita non a partire dal sesso e dalla sessualità (così come la razza non è prodotta a partire da un colore differente di pelle). Si tratta di un concetto i cui contenuti sono prodotti da squilibri di potere e dalla volontà di costruire quelle differenze che mentre discriminano, ordinano. Di questa operazione l’immagine diventa uno strumento privilegiato: essa reifica le differenze, le produce concretamente, cioè agisce non solo sul piano dell’immaginario, ma con un’immediata ripercussione sul piano del reale.
In questo senso, dicono le autrici “l’imporsi di un femminile in quanto immagine non richiama solo l’erotizzazione, ma piuttosto quel processo che storicamente ha a che vedere con la rappresentazione dell’altro, attraverso uno sguardo che lo crea proprio nella misura in cui lo mette in scena” (p. 46).

Ian Cumberlain

Ian Cumberlain “if looks could kill

A differenza della prospettiva di Zanardo, qui l’immagine si mostra non come nascondimento del reale ma come fattore di produzione di esso, come specchio, come luogo di conflitto tra immagine e realtà. L’immagine femminile è schermo del potere innanzitutto perché naturalizza ciò che in realtà non è naturale ma è prodotto del potere. Ed è schermo del potere perché rappresenta un campo politico di negoziazione e di conflitto.

L’immagine, in quanto tale, non può diventare un luogo di verità, pena la costruzione di altri stereotipi, ugualmente uniformanti e omologanti. Non c’è, dicono le autrici, un modo corretto di rappresentare le donne.

La critica deve agire sull’immagine stessa, sul suo legame inevitabile con il potere, sui meccanismi quindi che la originano, ‘i dispositivi che la costruiscono‘ (p. 91). Comprendere come il genere sia una rappresentazione, e in questo senso immediatamente legato all’immagine, vuol dire ammettere che esso non è qualcosa di statico, ma qualcosa che muta in quanto costantemente prodotto e ri-prodotto. In questa sua non staticità sta la possibilità dell’azione politica su di esso. Seguendo De Lauretis, se ‘la rappresentazione sociale del genere incide sulla sua costruzione soggettiva’ e se, viceversa, ‘la rappresentazione soggettiva del genere incide sulla sua costruzione sociale, ammettiamo una possibilità di azione e di autodeterminazione‘. L’immagine prodotto del potere e che, a sua volta, produce il genere, mostra la sua porosità in questo costante rimando al reale. Essa deriva da lì la sua forza, e da lì può diventare strumento di trasformazione.

Secondo le autrici “invece di demonizzare l’immagine, come pura emanazione del potere o come specchio deformante di una realtà che si colloca risolutamente al di fuori di essa, il confronto con il reale potrebbe invece mettere al centro il conflitto, e con esso le politiche della visibilità che si aprono proprio a partire dalle immagini. Nella tensione tra soggettività e immaginario è infatti possibile inventare delle forme discordanti e critiche di identificazione che resistano alla normalizzazione” (p.110).

Il libro, in sostanza, è un invito a rivedere il ruolo della immagini e il nostro ruolo rispetto ad esse. Aprire un varco all’interno di esse, produrre immaginari altri, non univoci, non miranti a costruire identità fisse. L’immagine quindi come luogo di conflitto, diventa campo specifico di azione politica.

Dal punto di vista teorico, niente da eccepire sull’interpretazione delle autrici: un’analisi accurata e attenta. Il problema principale del libro è il seguente: a chi stanno parlando le autrici?a chi è rivolta questa spinta all’azione? Non certo alle immigrate, alle veline, ai ceti bassi della società. L’utilizzo di un linguaggio francamente incomprensibile ai più ne mostra non solo i limiti teorici, ma soprattutto i limiti politici. Si tratta di un libro rivolto all’accademia, ad una certa filosofia politica molto à la page in certi ambienti. Evidente la ripresa di un linguaggio proprio di una certa filosofia francese (normalizzazione, desiderio, soggettivazione), per nulla nuovo ed anzi molto mainstream tra chi ha potuto frequentare le aule universitarie, mostra la sua inadeguatezza a cambiare davvero le cose perché è rivolto ai pochi privilegiati che beneficiano dello stesso sistema che vorrebbero criticare.

L’utilizzo di un simile linguaggio è espressione di un atteggiamento particolarmente elitista e ignaro di esserlo. In questo senso l’operazione di Zanardo è molto meno ‘borghese’, molto più rivolta a tutte le donne, pur con i limiti teorici che giustamente le autrici sottolineano.

Terminerei quindi con Bourdieu che su quest’ultimo argomento ha speso parole importanti. Sono più che altro un invito alla riflessione:

Vale la pena riflettere sui limiti del pensiero e dei suoi poteri, ma anche sulle condizioni del suo esercizio, che portano tanti pensatori a oltrepassare i limiti di un’esperienza sociale necessariamente parziale e locale, geograficamente e socialmente, e circoscritta ad un piccolo angolo, sempre lo stesso, dell’universo sociale e persino intellettuale (…) eppure l’osservazione attenta delle vicende del mondo dovrebbe indurre ad una maggiore umiltà, tanto chiaro risulta che i poteri intellettuali non sono mai così efficienti come quando si esercitano nel senso delle tendenze immanenti dell’ordine sociale, rafforzando in tal caso in modo indiscutibile, attraverso l’omissione e il compromesso, gli effetti delle forze del mondo, che si esprimono anche attraverso di essi”. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, p. 9.


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