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- Scritto da Camilla Maccaferri
- Pubblicato: 17 Novembre 2014
- Creato: 16 Novembre 2014
Interessante esordio alla regia del californiano Dan Gilroy, Lo sciacallo, nonostante qualche pecca, porta avanti una riflessione piuttosto originale su un tema che riguarda da vicino la società 2.0, fatta di immediatezza dell’informazione e di mancanza di filtri nel mostrare ciò che accade così com’è, nei suoi dettagli più crudi.
Jake Gyllenhall è il centro pulsante del film: il suo personaggio è nell’insieme tenero e folle, agghiacciante e disperato, spietato e fragile al contempo. Dimagrito di 10 chili per entrare nella parte, Gyllenhall fa suo il protagonista, incarnandone nevrosi e compulsioni: addirittura arrivando a ferirsi una mano mentre girava una sequenza particolarmente intensa. Un esempio di possessione alla Strasberg che arricchisce la pellicola.
Spiantato, senza arte né parte, Lou cerca di tirare a campare a L.A. con furtarelli ed espedienti, imparando da internet tutto lo scibile umano: nessuno gli vuole dare un lavoro vero, finché il ragazzo, ispirato da un incidente stradale cui assiste, decide di crearselo. Comincia così a operare come freelance alla ricerca di eventi tragici da riprendere e vendere ai telegiornali locali: sparatorie, inseguimenti, incendi, tutto quello che può far gola al tg delle sei del mattino. Tragedia dopo tragedia, Lou diventa sempre più sfacciato, amorale, un vero e proprio sciacallo che si introduce clandestinamente in casa delle vittime e arriva a manipolare le scene dei crimini pur di rendere i suoi video più appealing per l’audience.
Due assi portanti su cui la riflessione di Gilroy si innesta: da una parte, l’illusione data dal web di poter imparare tutto il necessario per avere successo nella vita semplicemente studiando online, che aliena e stravolge giovani e impressionabili menti, dall’altra la necessità morbosa della nostra società di dover assolutamente vedere le cose, senza mediazioni, senza filtri, indipendentemente dalla loro crudezza. L’agonia del vicino di casa che muore con un proiettile accidentale in corpo, la disperazione della famiglia bersagliata da una gang per errore, le lamiere contorte di un terribile incidente stradale: la handycam di Lou porta l’occhio, avido e assetato, dello spettatore, direttamente dentro la tragedia, soddisfacendo il suo voyeurismo. E allora vien da chiedersi chi sia il vero sciacallo: se il giovane freelance in cerca di un futuro in una società difficile, o lo spettatore del tg delle sei, che si pasce di caffè e disgrazie altrui, consolandosi in questo modo malsano e perverso della propria miseria quotidiana.
Qualche lungaggine di troppo e un paio di cose di cui non si sentiva la mancanza: nella fattispecie, il torbido legame imbevuto di sadismo tra Lou e la direttrice del TG (Rene Russo) e la parentesi irrisolta di indagini poliziesche verso il finale. Ma nel complesso resta un’opera ricca di spunti, coraggiosa fino alla crudeltà e ben confezionata. Dan Gilroy è figlio d’arte (padre premio Pulitzer, madre scrittrice e scultrice), autore finora di sceneggiature senza peso: fa piacere che sia emerso, seppure un po’ tardivamente (è del 1959), il suo talento registico.
Voto: 2,5/4