Abbiamo già avuto modo di parlare (cfr. Ultimissima 7/9/11) dello scrittore, giornalista ed editorialista Alain de Botton, autore di "Del buon uso della religione" (Guanda 2011), ovvero una sorta di risposta al libro di Giulio Giorello intitolato "Del buon uso dell'ateismo". E' un dialogo tra non credenti intelligenti e non certo razionalisti. In passato abbiamo apprezzato la posizione di Giorello.
De Botton parla ancora una volta parla della sua educazione forzata all'ateismo: "Sono cresciuto in una famiglia di atei convinti, figlio di ebrei non osservanti che mettevano la fede religiosa sullo stesso piano della fede in Babbo Natale. Nonostante fossi stato fortemente influenzato dall'atteggiamento dei miei genitori, passati i vent'anni il mio ateismo mi ha mandato in crisi". Al posto di approdare alla fede però, come spesso capita, è oggi convinto della necessità di "sfruttare" il benessere culturale che la vita religiosa, in particolare cristiana, offre: "Mi sono reso conto che la mia protratta resistenza alle teorie sull'aldilà o sugli abitanti del paradiso non era una giustificazione sufficiente per liquidare la musica, gli edifici, le preghiere, i rituali, le celebrazioni, i santuari, i pellegrinaggi, i pasti in comunione e i manoscritti miniati". Ed è opportuno farlo, secondo lui, per contrastare la disgregazione del senso di comunità nella società laica moderna, e per far fronte alle fragilità che minano l'equilibrio di tutti gli esseri umani. Afferma: "Nella società di oggi ci viene chiesto di fare una scelta, di dichiarare se siamo religiosi o se non lo siamo affatto. O si crede o non si crede, punto. Mettere le cose in questo modo mi sembra un po' ridicolo, perché in realtà nella pratica religiosa si trovano elementi importanti che non riguardano in realtà solo "la fede" in senso stretto. In particolare, credo che un po' tutti noi abbiamo bisogno di imparare dalla religione come organizzare la nostra vita spirituale". Propone quindi di "leggere le fedi, principalmente quella cristiana e, in misura minore, quella giudaica e quella buddista, alla ricerca di intuizioni che possano tornare utili nella vita laica, soprattutto in relazione ai problemi sollevati dalla convivenza all'interno di una comunità e dalle sofferenze mentali e fisiche. Non si tratta di negare i valori della laicità: la mia tesi è che spesso abbiamo laicizzato malamente, cioè che, mentre cercavamo di liberarci di idee inattuabili, abbiamo erroneamente rinunciato anche ad alcuni degli aspetti più utili e affascinanti della religione".
Uno spunto insolito quello dell'intellettuale svizzero, seppur non innovativo. Già Giuliano l'Apostata riteneva che i cristiani andassero combattuti sul loro campo, imitandoli nella sobrietà e nella benevolenza verso gli altri. Tuttavia l'intellettuale afferma indirettamente l'incapacità della realizzazione di una morale laica (almeno fino a prova contraria), così come aveva già sottolineato il "papa laico" Norberto Bobbio: "La morale razionale che noi laici proponiamo è l'unica che abbiamo, ma in realtà è irragionevole. Io non ho nessuna speranza. In quanto laico, vivo in un mondo in cui è sconosciuta la dimensione della speranza". E ancora in un'intervista inedita: "Gli uomini sono cattivi. Il male è la storia umana. È la sconfitta di Dio e la sconfitta della ragione. Questo secolo lo dimostra più di ogni altra epoca. E il cristianesimo, dov'è il cristianesimo? [...]. Come diceva Croce, non possiamo non dirci cristiani. Senza l'etica cristiana non c'è convivenza. Ma il cristianesimo come fede è un'altra cosa. E io non riesco a non dubitare". Il tentativo dello scrittore svizzero non appare comunque realizzabile, perché nessuna etica sopravvive se non è agganciata a qualcosa che sovrasti l'uomo. Detta in termini sportivi, i giocatori non sanno farsi le regole. Recentemente ha ampliato questo concetto il filosofo Benedetto Ippolito, docente presso l'Università degli Studi "Roma Tre": "l'unico pilastro con cui è possibile salvaguardare l'intelligenza, la libertà dell'uomo e il rispetto della natura circostante è solo Dio creatore, perché Egli è il principio che permette di concepire il valore supremo della natura creata rispetto ai tanti interessi esistenti". E perfino il teologo dissidente Hans Küng: "L'umano è salvaguardato solo se viene fondato sul divino. Solo l'Assoluto può vincolare in maniera assoluta".