Lo scrittore e le parole rubate

Creato il 23 aprile 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Tema più letterario, oggi, anche se non privo di riferimenti politici, mediatici e sociali. E tema che lancio sperando di ricevere qualche contributo, più per raccontare esperienze che per aprire un dibattito. Peraltro, un tema che nasce quasi per caso, da un paio di episodi freschi di questa mattina.
Il primo episodio si compone quando poco dopo il risveglio, come sempre, attendo il lento riattivarsi delle mie funzioni biologiche sfogliando le pagine del televideo. Qui, nella sezione dedicata al primo turno della presidenziali francesi, leggo che Marine Le Pen ha concluso il discorso di ringraziamento ai suoi elettori dicendo: «Non è che l’inizio, continueremo la lotta». Il pezzullo non aggiunge altro, non so se per mancanza di spazio o per ignoranza della storia molto contemporanea da parte di chi lo ha scritto, ma, pur conoscendo giusto una ventina di parola in francese, non ho alcuna difficoltà nel tradurre all’impronta per risalire all’espressione che la candidata del Fronte Nazionale ha certamente pronunciato nella sua lingua: «ce n’est qu’un début continuons le combat». Lo so per certo, non solo perché quella è la traduzione, ma perché si tratta di un celeberrimo slogan del Maggio francese (quello del Sessantotto, ovviamente), ripreso e ampiamente utilizzato in tutto il decennio successivo anche dai movimenti della sinistra italiana, scandito in tutti i cortei in ritmo tambureggiante (sé-né-candebù / continuole-combà), tuttora vivo in alcuni richiami e citazioni di siti antagonisti. Il fatto che la frase, politicamente e storicamente ben connotata, sia stata scelta dalla candidata dell’estrema destra per galvanizzare il suo popolo costituisce un ardito scippo, ma anche una rischiosa forma di evocazione autolesionista.
Il secondo episodio prende corpo poco più tardi, quando mia moglie, appena rientrata in casa, si lamenta del freddo che persiste. «Speriamo che arrivi presto Hannibal», le dico. Mi guarda con aria interrogativa. Le spiego che questo è il nome che i meteorologi hanno assegnato all’anticiclone che a partire da metà settimana dovrebbe finalmente portarci il caldo. «L’hanno chiamato così perché perché cannibalizza le nuvole?», mi chiede lei ridendo. Le rispondo che immagino di no, che siccome si forma in Nordafrica, più o meno attorno all’attuale Tunisia, suppongo che il riferimento sia storico e che riguardi Annibale, il condottiero cartaginese, che appunto era di quelle parti e che da lì mosse guerra verso Roma, seguendo, più o meno, quello che sarà il percorso dell’anticiclone. Si apre quindi una discussione sul perché il nome sia “in inglese”, che chiudo facendo notare che semmai è Annibale a essere italianizzato (neppure latinizzato) e, documentandomi, appuro che la traslitterazione dell’originale punico חניבעל è in effetti Hanniba’al, piuttosto simile alla grafia del nostro anticiclone.
Restano in piedi alcune domande, a ronzarmi in capo. Possibile che un film (seppure famoso, come Il silenzio degli innocenti) e un’interpretazione magistrale (come quella di Anthony Hopkins) debbano far sì che, anche in Italia, il nome Hannibal sia necessariamente associato al “cannibale” Lecter e non al condottiero della famiglia cartaginese dei Barca? Ed è possibile, come ha tentato di fare Marine Le Pen, prendere una frase che di diritto appartiene ormai a un preciso immaginario e “sdoganarla”, ribaltandone anzi il segno politico? Ma, più semplicemente: è possibile utilizzare liberamente parole o frasi che, per ragioni storiche o mediatiche, vengono inevitabilmente associate dai più a un immaginario e a un contesto precisi?
È celeberrimo, in tal senso, il caso di “Forza Italia”, slogan che non si poteva più utilizzare in ambito sportivo (e grande attenzione dovevano prestare giornalisti e commentatori del settore), perché a un certo punto, proprio in ragione della sua origine popolare e condivisa, qualcuno ne aveva fatto il nome di un partito. Più in piccolo, ho da tempo rinunciato a usare il termine “irresponsabile”, perché da quasi un decennio esso mi evoca l’espressione inutilmente grave di Pierferdinando Casini che, in qualsiasi polemica politica di nessun conto, si aggrappa sistematicamente a tale epiteto che rivolge senza pietà e con sdegno a tutti i rivali (peraltro, già ben ripagato dalla beffa di vedere autobattezzarsi “Responsabili” un manipolo di deputati pronti al salto della quaglia per un piatto di lenticchie, qualche tempo fa). Ed è vero che il discorso vale anche per i nomi propri: basti pensare a quanto la scelta dei nomi dei figli dica, o pretenda di dire, a proposito dei riferimenti culturali dei genitori (a proposito di letteratura, ho persino conosciuto un ragazzo di nome Aureliano, in omaggio al “colonnello” Buendía de Cent’anni di solitudine).
Ho in mente, nei libri dei nostri autori e non solo (naturalmente), esempi di parole e nomi utilizzati senza il timore di sottoporsi a un’intempestiva evocazione, sorvolando o ribaltando il senso che l’uso mediatico o sociale potevano suggerire. Ma mi piacerebbe sentire dalla voce degli scrittori qual è il loro rapporto con questa forma di condizionamento: se si sentono prigionieri, se si divertono a rovesciare le parti, se ignorano i possibili effetti collaterali dell’uso di un termine o della scelta di un nome.
Qualche esempio, a partire dai nostri titoli, lo potrei fare. Ma preferisco lasciare la prima battuta ad altri.


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