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Lo scudo solare velato di nero d’ossa

Creato il 14 febbraio 2014 da Media Inaf

SolarOrbiter_Astrium02L’antico pigmento nero derivato da ossa bruciate, usato già più di 30.000 anni fa nelle pitture rupestri, viene ora in soccorso alla tecnologia spaziale. Una versione moderna del nero d’ossa andrà infatti a rivestire la parte più esterna dello scudo termico in titanio del Solar Orbiter, la sonda dell’ESA che si avvicinerà più di ogni altra al Sole, il cui lancio è previsto nel 2017. Con una tecnologia utilizzata per gli impianti dentali, il colore (per cui è stato inventato l’ossimorico appellativo di Solar Black) non verrà semplicemente steso sopra ma diventerà tutt’uno con il metallo dello scudo. Grazie alle sue proprietà termo-ottiche, questo rivestimento non scolorirà nel tempo, nonostante anni di esposizione ad un flusso estremo di radiazione ultravioletta, né sarà soggetto a cariche elettrostatiche indotte dal vento solare. Uno dei tanti problemi tecnologici da risolvere per questo gioiellino che dovrà trovarsi a suo agio fronteggiando una luce solare 13 volte più intensa di quella che arriva sulla Terra e temperature che saliranno fino a 520 gradi.

“Lo scudo termico è estremamente importante per proteggere gli strumenti del Solar Orbiter che sono progettati per guardare direttamente il Sole,” ci spiega Ester Antonucci, già direttrice dell’Osservatorio Astrofisico di Torino dell’INAF e responsabile del coronografo METIS. “Naturalmente, essendo strumenti di altissima precisione, è altrettanto importante controllarne il gradiente termico per non avere deformazioni che rovinerebbero le immagini e le osservazioni solari”.

Ma perché “dipingere” una sonda solare proprio di nero?

In generale perché dobbiamo avere delle condizioni per cui la luce possa entrare negli strumenti senza avere delle interferenze e delle riflessioni con lo scudo termico. Per noi che vogliamo osservare con METIS la debole corona sovrastante il disco solare è ancora più fondamentale che non entri luce parassita quando schermiamo appunto il disco solare.

Ci può fare il punto della situazione su Solar Orbiter?

Per il Solar Orbiter si stanno costruendo ben dieci strumenti. E’ un carico scientifico molto complesso, che va dai raggi x, al visibile agli strumenti che misurano in situ il plasma. Attualmente si è nella fase di completamento della progettazione degli strumenti, che dovrebbero poi essere realizzati entro la fine del 2015. Servirà quindi un anno e mezzo per integrarli all’interno del satellite e per le varie verifiche prima del lancio, attualmente previsto per il luglio 2017. Ci vorranno ancora poi tre anni, attraverso orbite molto complesse, passaggi multipli vicino a Venere e un altro passaggio vicino alla Terra, perché si possa raggiungere l’orbita con il perielio più vicino al Sole. A quel punto sarà il manufatto umano che arriverà più vicino al Sole all’interno dell’orbita di Mercurio. I tre di avvicinamento saranno usati per calibrare gli strumenti e anche per verificarne la stessa stabilità termica, perché durante l’orbita la sonda spaziale subirà una differenza di temperatura molto grande. Quindi anche questo periodo sarà fruttuoso per avere degli strumenti che funzionino alla perfezione quando, nel 2020, cominceremo ad osservare il Sole.

Qual è il risultato che vorrebbe vedere per primo?

Ce ne sono tanti, ma certamente la fase più emozionante sarà quando la sonda si alzerà abbastanza rispetto all’eclittica e al piano equatoriale solare in modo da poter vedere finalmente i poli del Sole. Noi da Terra non riusciamo a vederli sufficientemente bene per motivi geometrici. Invece, con questa sonda riusciremo effettivamente a vederli in altissima risoluzione e, attraverso la misura delle oscillazioni, a scorgere quello che c’è sotto la superficie del Sole anche guardando i poli, per verificarne la simmetria sferica. Inoltre, i poli sono le zone da cui proviene il vento solare e vorremmo proprio studiare con sufficiente accuratezza la base di questo vento solare veloce. E questo si può fare solo osservando ai poli.

 

Una descrizione (in inglese) del Solar Orbiter

Fonte: Media INAF | Scritto da Stefano Parisini


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