Prima di iniziare…il punto della situazione.
La critica ha da sempre le sue regole, i suoi dogmi, la sua struttura pre-fissata da seguire. Bisognerebbe preferibilmente iniziare la recensione di un film con una breve introduzione, poi un accenno di trama, proseguire con una descrizione del cast e della troupe. Assolutamente da evitare la scrittura in prima persona o l’aneddotica personale, mantenere un distacco dall’opera che si sta analizzando e così via. Regole legittime e anche condivisibili ma a cosa serve realmente la critica cinematografica? Forse è più facile dire a cosa sia servita in passato, dove talvolta ha assunto un importante ruolo d’interprete del pensiero di una generazione di nuovi cineasti, contestualizzando le opere rispetto al momento storico fino a diventare quasi un movimento politico. Ma adesso?
Come per la regia, in cui basta avere una qualsiasi videocamerina e la capacità di uploadare su Youtube per auto-definirsi regista, basta un PC e un qualsiasi portale disposto a pubblicare il tuo pezzo per definirsi un critico. Siamo inondati di recensioni, articoli, blog e forum. Sarebbe legittimo pensare quindi che con questo ciclone di nuove firme e giovani menti la critica si sia rinvigorita e rinnovata ma, invece, sembra di assistere ad una omologazione di massa in cui tutti i cliché si sono amplificati. Da una parte, tanto per fare un esempio, dilaga la sindrome del “signor Rossi e della macchina”. Il signor Rossi, impiegato di banca in giacca e cravatta, chiuso nella sua automobilina diventa una belva rabbiosa imprecando verso tutti, pronto a clacsonare e a fare le corna a chiunque gli tagli la strada. Il Signor Rossi non penserebbe neanche per un attimo di comportarsi in questo modo al di fuori della sua scatoletta di lamiera e similarmente a lui, davanti allo schermo di un computer, il giovane critico fa scontare al film di turno tutte le sue turbe e frustrazioni. Poi, ancora più comune, è il compiacimento nell’essere criptici, come se lo spessore intellettivo e culturale di quello che si scrive fosse direttamente proporzionale alla comprensione nella lettura. Il giovane critico è uno strano animale: capace di mangiare cartone bagnato e san pietrini a colazione pur di potersi permettere di andare ai festival tutto in tiro per pavoneggiarsi con i propri colleghi, capaci di uccidere a sangue freddo pur di accaparrarsi i gadget di turno donati alle anteprime stampa o per farsi fotografare con il vip del momento, per poi, ovviamente, correre a casa, portafoglio vuoto e stomaco brontolante, e caricare su Facebook le foto che testimoniano le proprie stoiche imprese.
Naturalmente queste riflessioni sono una generalizzazione, ci sono, anche se nascoste, molte buone firme e articoli annidati nel web. Ma tra articoli comprati dalle case di produzione (a centinaia), blog rancorosi, palline, stelline e pollici di varie grandezze, rimane una domanda: a cosa serve la critica? A contestualizzare l’opera rispetto agli sviluppi culturali, sociali e naturalmente cinematografici del paese e del mondo, come si diceva prima? Per scoprire di cosa parla un determinato film? Una recensione è al servizio dell’argomento o si può considerare un’opera assestante? L’unica domanda a cui il sottoscritto si sente di rispondere riguarda gli intenti di questa rubrica, motivo tra l’altro di questa lunghissima premessa. Dust, nel suo piccolissimo, pur trattando di un argomento molto specifico, vuole essere un luogo dove si raccontano delle storie. Storie di cinema. Film dopo film, regista dopo regista, aneddoto dopo aneddoto, l’intento è quello di creare un affresco su una fetta di cinema chiamato western.
Sperando in questo preambolo di non aver varcato la sottile linea dell’ipocrisia mi auguro (infrangendo la regola della prima persona) di guadagnarmi il privilegio di avere questa rubrica. Perché scrivere, (cosa che andrebbe ricordata anche a molti neo-registi) non è un diritto ma un privilegio – sia che a leggere siano dieci o un milione di persone – che bisogna guadagnarsi…
…e adesso torniamo a parlare di western…
Chi scrive ha troppo rispetto e stima dell’universo femminile per tentare di interpretare i suoi pensieri. Quindi umilmente ho domandato:
“Non so perché, effettivamente, ma appena mi propongono di vedere un western mi metto subito sulla difensiva, come se dovessi prepararmi psicologicamente. Molto probabilmente parte del mio rifiuto è legato alla completa assenza di personaggi femminili e possibilità di immedesimazione.”“Dunque, diciamo che è un genere da me poco visitato ma in quel poco che ho visto c’è sempre del forte maschilismo nel senso che la figura della donna è sempre relegata ad un contorno, magari ad un motivo di scontro tra due uomini. Però è anche vero che non è l’unico genere che fa questo, ma diciamo che quasi sempre i ruoli femminili non sono dal forte temperamento e molto spesso la donna finisce per essere il premio del più forte. Difficilmente noi donne ci vediamo in questa tipologia di film.”
“La mancanza di conclusioni che finiscono con un matrimonio. No, scherzo però credo che passi per noioso e vecchio. Un retaggio del passato tutto al maschile…”.“Troppe sparatorie e troppo poco romanticismo…”.“L’assenza di forti personaggi identificanti. Una donna non deve necessariamente immedesimarsi in un personaggio femminile ma è difficile farlo anche con figure maschili quando hai la sensazione che il film non tenga minimamente in considerazione il tuo sesso o quando lo fa hai il sentore di maschilismo…”
Testosteronico, maschilista, sciovinista: queste sembrano le parole ricorrenti nel descrivere l’universo western per la maggior parte delle donne a cui è stata chiesta una dichiarazione. Il più delle volte, ironicamente, quando sono state spese parole positive, è stato quasi sempre in funzione di un importante figura famigliare maschile: “Ricordo quando da piccola guardavo questi film con mio nonno. Quindi per me rappresentano un po’ una fetta della mia infanzia.” “Mio padre non se ne perdeva uno e lui ci teneva che li guardassimo insieme.” “Per me era un rito, il Venerdì sera su Rete4, vedevamo un western.” “Mio nonno era un enciclopedia del western, quindi quando mi capita di vederne uno in televisione penso sempre a lui.”
Un “territorio” tutto maschile, quindi, che semmai può diventare un punto d’incontro, rimanendo sempre, però, una prerogativa maschile. Le accuse maggiori sembrano indirizzate verso il cinema western americano più classico, i film di Ford e Hawks in primis. Ecco, per amore della contestualizzazione, pensiamo, per un attimo, alla società americana negli anni cinquanta. Nel 1956, anno d’uscita nelle sale del capolavoro fordiano Sentieri Selvaggi, viene pubblicata la seguente pubblicità dei pantaloni Leggs (senza creare, chiaramente, nessuno scalpore, essendo uno dei tanti esempi):
Ecco un esempio ancora più esplicito degli stessi anni:
Il western sembra essere tirato in ballo in questi casi, spesso preso di mira da organizzazioni femministe, sebbene effettivamente nessuno si sia mai soffermato a riflettere oggi su quanto il contesto socio-culturale di quegli anni abbia potuto influenzare la struttura del genere. Anche se poi le cose, come vedremmo più in la, sono sempre più complicate di come sembrano…
Nei prossimi quattro numeri di Dust verrà analizzata la figura della donna all’interno del genere, passando dal già menzionato cinema classico, con pellicole anomale come Duello al Sole (1964) di Vidor e JohhnyGuitar (1954) di Nicholas Ray, una delle principali fonti d’ispirazione per il capolavoro di Leone C’era una volta il West (1968). Si tratteranno i western per famiglie, unica ramificazione del genere in cui la donna sembra avere un ruolo predominante: il bellissimo Cat Ballou (1965) di Elliot Silverstein con Jane Fonda o Calamity Jane (Non Sparare…Baciami), 1954, con Doris Day. Il cinema duro di Eastwood, focalizzandoci sopratutto su Lo Straniero Senza Nome da lui diretto nel 1973, una delle pellicole più violentemente attaccate dalle associazioni femministe, fino al riflessivo Gli Spietati (1992), in cui l’autore apre un esplicito discorso sulla compatibilità tra uomo e donna nel contesto del west. Il cinema di puttane e madonne di Leone, analizzando la grande eccezione di C’era una volta il West con Claudia Cardinale, possibile rappresentante di un western più ‘femminile’. Pensiamo ai suoi ruoli ne I Professionisti (a cui è stata dedicata un’edizione di questa rubrica) e Le Pistolere (1971), produzione italo-francese diretta da Christian-Jaque. I western di Ralph Nelson, a cominciare da Soldato Blu, pellicola che, per prima, incarna la rivoluzione sessuale che stava avvenendo negli Stati Uniti, oltre che essere un’esplicita metafora della guerra in Vietnam, con una Candice Bergen da togliere il fiato. Bergen, altra figura di donna forte, se pensiamo all’altro suo ruolo nel western: quello in Stringi i Denti e Vai! (1975), in cui forse per la prima volta una donna è socialmente alla pari di un uomo, essendogli data la possibilità di partecipare alla gara su cui ruota tutta la pellicola di Brooks. Fino ad arrivare a noi con titoli come Pronti a Morire (1995) di Raimi e il precedente Bad Girls (1994) di Johnathan Kaplan, in cui troviamo un vero e proprio, e non riuscito, ribaltamento dei ruoli. Si cercherà di capire se e quanto il western è meritevole di questa nomea che sia è guadagnata negli anni e se, in effetti, è riuscito a rimanere al passo coi tempi.
Nella prossima puntata Dizionario: Donne nel West – parte 1.
Eugenio Ercolani
Dal film Soldato Blu:
Honus Gent: I’m going to sleep.
Kathy Maribel Lee: You do that, soldier. And you try to keep your mind off me.
Honus Gent: Ms. Lee, I certainly have at no…
Kathy Maribel Lee: Oh, I know. If you get too all-fired horny during the night, just go soak your head in the stream over there.