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Lo smart working e la familiarità con le tecnologie vanno a braccetto. È quanto emerge dallo studio “Lavoro flessibile: amico o nemico?” condotto da Vodafone, che ha coinvolto 8000 tra lavoratori e datori di lavoro, manager e dirigenti di piccole e medie imprese, organizzazioni del settore pubblico e multinazionali di 10 paesi. I giovani tendono infatti a utilizzare le tecnologie che abilitano il lavoro da remoto tra cui i servizi cloud, di messaggistica avanzata e video conferenza, spontaneamente e senza problemi. Ne consegue che per il 72% dei giovani tra i 18-24 anni il lavoro flessibile migliorerebbe la qualità del loro lavoro. Diversamente, tra gli intervistati oltre i 55 anni, questa percentuale scende al 38%. “Non c’è ancora abbastanza consapevolezza su come la tecnologia possa trasformare in modo positivo il modo di lavorare delle persone”, commenta Sara Trabucchi, capo della sezione Enterprise Solutions in Vodafone Italia. “Quello che serve è un cambiamento culturale volto alla costruzione di un rapporto di fiducia tra le persone, una sorta di patto in cui entrambe le parti hanno maggiore libertà in cambio dell’impegno a produrre dei risultati. Bisogna provare, nessuna azienda si sente pronta ad adottare un percorso di smart working dalla sera alla mattina”. Le differenze non sono solo generazionali, ma anche legate ai singoli contesti nazionali. Il Regno Unito, per esempio, è al comando nella classifica della fiducia tra datori di lavoro e dipendenti – solo l’8% dei datori di lavoro britannici ha manifestato timori in merito a una possibile diminuzione dell’impegno da parte dei propri dipendenti nel caso vengano implementate politiche di lavoro flessibile. Valore che sale invece al 33% nel caso di Hong Kong. Per quanto riguarda la consapevolezza rispetto alle procedure sulla sicurezza, è interessante notare che il 52% dei dipendenti tedeschi intervistati ha rivelato di non essere a conoscenza delle politiche di sicurezza della propria azienda in merito al lavoro flessibile, contro il 23% dei lavoratori indiani. Passando invece alle modalità di svolgimento, il 71% dei lavoratori spagnoli intervistati usa il proprio smartphone per lavorare in modo flessibile fuori dal posto di lavoro rispetto al 38% nel Regno Unito e al 27% in Germania. All’interno della ricerca (e di altre simili), coloro che hanno adottato pratiche di lavoro flessibile affermano di aver notato un significativo miglioramento delle prestazioni e, in particolare, individuano tre assi lungo i quali si evidenziano i maggiori effetti positivi: aumento della produttività (83%), crescita dei profitti (61%) e impatto sulla reputazione aziendale (58%). Tra i dipendenti delle aziende che non hanno ancora adottato lo smart working esiste però un pregiudizio culturale: per il 33%, infatti, il lavoro flessibile non si concilia con la mentalità dell’organizzazione, altri temono un possibile conflitto tra la parte del team coinvolta nello smart working e la parte del personale che deve rimanere in ufficio. Il 22%, infine, crede che i dipendenti, qualora gli fosse concesso di adottare modelli e tecnologie di lavoro flessibile, non lavorerebbero con lo stesso impegno. Tra i lavoratori che non usufruiscono ancora del lavoro flessibile emerge in modo chiaro però che l’introduzione di questo strumento all’interno della loro realtà avrebbe un impatto positivo sulla motivazione dei dipendenti (55%), sulla produttività (44%) e sui profitti (30%). L’Italia fanalino di coda. Il 40% dei lavoratori italiani coinvolti nel sondaggio non ha ancora adottato politiche di lavoro flessibile, le quali sono state invece utilizzate dal 31% dei lavoratori, posizionando l’Italia al penultimo posto tra tutti i Paesi coinvolti nella ricerca, seguita solo da Hong Kong (22%). Interrogati rispetto alla scarsa adozione di politiche di lavoro flessibile, il 38% degli intervistati risponde che esse non si conciliano con il proprio ruolo, il 43% preferisce l’attuale organizzazione, mentre il 9% pensa che potrebbe influire negativamente sulla propria carriera. “Questo pregiudizio è ovviamente sbagliato”, continua la Trabucchi, “posso portare il mio esempio: io sono stata coinvolta nel progetto pilota di smart working di Vodafone nel 2012; da allora, la mia carriera non ha affatto risentito del remote working. Chi come me deve gestire un team può trarre vantaggio dalle soluzioni che questo modello lavorativo offre oggi. Bisogna stimolare un cambiamento a ogni livello, perché una volta che si supera il pregiudizio iniziale i vantaggi del remote working sono notevoli. Si deve creare un nuovo legame tra manager e collaboratore, dov’è la fiducia e non più il numero di ore passate alla scrivania a fare la differenza”. The post Lo smart working piace ai più giovani appeared first on Wired.