Per chi non la conosce abbastanza, o la conosce solo per sentito dire, Bolzano potrebbe ancora essere percepita come un “luogo”. Ma il significato del termine che ho messo tra virgolette risulta pienamente comprensibile, ormai, solo se lo proiettiamo sul contorno di ciò che gli si oppone, vale a dire quello di “non luogo”. Ha scritto l’etnologo e antropologo francese Marc Augé: “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non luogo”.
Concretamente, Augé esponeva la sua ipotesi fondamentale (cioè quella che individua la surmodernità come produttrice di non luoghi antropologici) parlando di un mondo “in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio «muto», un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero”. È un fatto che lo stile di vita che ormai più ci contraddistingue, e nel quale riconosciamo il nostro essere “occidentali”, combacia perfettamente con l’analisi di Augé.
Come dicevo all’inizio, nonostante Bolzano appaia un po’ attardata sulla cresta di questo sviluppo senza progresso (Pasolini), da qualche tempo ha preso piede anche qui un refrain retorico tutto impastato di “anelito surmodernista”. Richieste di sempre maggiore “raggiungibilità” (espansione dell’aeroporto) e di spazi adibiti al consumo (edificazione di grandi centri commerciali), ma anche lotta senza quartiere ai fenomeni della povertà esibita – da parte di chi vorrebbe estinguere in nome della sicurezza piccolo borghese o neoproletaria la minaccia portata da immigrati e accattoni – sono i segnali della trasformazione in atto. Ed è ovviamente una trasformazione particolarmente sostenuta “in rete”, il non luogo per eccellenza, allorché al problema posto dalla crisi del lavoro l’unica risposta che viene in mente all’utente-consumatore è quella suggeritagli dalle strategie autoreferenziali della grande distribuzione.
Per completare l’opera non c’è che da attendere la messa a punto dell’ultimo dettaglio: l’avallo di una politica ormai completamente esautorata dalla propria funzione progettuale.
Corriere dell’Alto Adige, 30 dicembre 2015