Inge Lohmark insegna biologia in una scuola dell’ex DDR. È una professoressa inflessibile e algida, che dà del lei ai suoi alunni, considerati sudditi ubbidienti, dei «rifornimenti per il sistema pensionistico», a cui non si deve concedere libertà né sollecitarne la creatività che, come Dio, ritiene inesistente perché non misurabile né dimostrabile; una professoressa ovviamente in forte contrasto con tutti i suoi colleghi “democratici” ritenuti deboli e inutilmente amichevoli nei confronti degli alunni. Una perfetta cittadina del passato regime, una donna per cui «il pensiero critico è sempre ben accetto. Purché sia ortodosso». Ha un approccio darwinista e rigidamente scientista secondo cui non c’è altro scopo nell’esistenza che la lotta per la sopravvivenza e «solo la competizione ci mantiene in vita». In questa visione non c’è spazio per i sentimenti, l’amore è «un alibi apparentemente di ferro per simbiosi malate» e gli esseri umani sono guidati unicamente da «sbalzi ormonali. Reazioni chimiche. La conservazione della specie».
È questo il filo rosso del bel romanzo della tedesca Judith Schalansky (1980), finalista al Buchpreis 2011, uscito per i tipi Nottetempo, con la traduzione di Flavia Pantanella, un gioiellino editoriale arricchito dalle illustrazioni della stessa autrice, Lo splendore casuale delle meduse, l’affascinante titolo della traduzione italiana, che riprende – a differenza del titolo originale Il collo della giraffa, che preferisce un esempio celebre che spiega l’evoluzionismo – un passaggio del romanzo, in cui si celebra la perfezione e la bellezza della natura secondo la professoressa Lohmark, che esalta la simmetria radiale di quelle creature agli occhi dei suoi studenti. Sempre però gli studenti, pochissimi, a suo avviso meritevoli, quelli per cui vale la pena spiegare, ché i più lenti e i più deboli vanno lasciati indietro per non rallentare l’evoluzione della specie ed eliminare dei semplici parassiti. Un personaggio, com’è intuibile, tra i più antipatici che la letteratura ci abbia offerto, eppure delineato con una sincerità e un’ incisività disarmanti, con momenti di divertita ironia; una donna dai tratti umanissimi che dietro la sua intransigenza cela una vita privata disastrata, con il marito allevatore di struzzi ormai estraneo e una figlia ancora più estranea che l’ha abbandonata per andare a vivere lontano da lei negli Stati Uniti, ma tant’è, dai figli «non c’è da aspettarsi gratitudine e non c’è nessun diritto di restituzione. Nessuna vicinanza. Nessuna comprensione».
La scrittura fortemente paratattica della Schalansky è trascinante. Nel romanzo non vengono raccontati eventi di rilievo, ma la quotidiana vita scolastica e la visione del mondo della professoressa, con ritmo incalzante, che sembra procedere immancabilmente verso un esito traumatico. E la sorpresa, accennata con estrema delicatezza e sensibilità dall’autrice, è uno sconvolgimento che la Lohmark non avrebbe neanche mai preso in considerazione: l’emergere di un sentimento, il desiderio nei confronti di un’alunna. Parallelamente ai rilievi che le muove il preside circa la sua eccessiva rigidità e inazione di fronte a delle angherie subite da un alunno – neanche a dirlo per lei un naturale scontro tra il forte e il debole in cui è giusto che questo soccomba – è quell’inaspettato terremoto emotivo che destabilizza la professoressa Lohmark, crollo dietro cui non è arbitrario intravedere il crollo della Germania orientale col suo determinismo sociale e l’approccio rigidamente materialista.
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