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Lo stereotipo rassicurante

Creato il 23 novembre 2013 da Elgraeco @HellGraeco

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Che siate narratori, scrittori, blogger, registi, spettatori o lettori, lo stereotipo prima o poi intralcia il vostro cammino.
Ci pensavo già da un po’, allo stereotipo. Poi negli ultimi giorni mi è capitato di leggere un paio di recensioni su Orfani della Bonelli, accusato per la maggior parte di tracimare luoghi comuni da ogni tavola, e poi di ascoltare qualche passo, sul tubo, di nuovi libri/ebook letti da voci famose. E anch’essi contenevano elementi triti e ritriti.
E mi sono chiesto perché.

Perché presentare come nuovo ciò che è nato vecchio.

Ed è un argomento, e una risposta, che può far nascere discussioni interessanti.
Per un attimo voglio mettermi nella testa delle grandi produzioni, di chi investe cento milioni di dollari in un progetto e, al di là del divertimento insito in esso, pretende un ritorno economico perché, in caso contrario, cambierà mestiere.

Mi vengono in mente un paio di titoli famosissimi:

Jake's avatar and Neytiri. One of the inspirat...

Jake’s avatar and Neytiri. (Photo credit: Wikipedia)

Avatar, di James Cameron
Pacific Rim, di Guglielmo del Toro (li trovate entrambi recensiti all’indice dei film, qui sul blog)

Che io, tutto sommato, ho giudicato positivamente, per la perizia tecnica il primo, oltre che per la panificazione commerciale perfetta nei minimi dettagli che ha consentito a James Cameron di riproporre per l’ennesima volta la storia di Balla coi Lupi (oltre che scopiazzare di qua e di là, soprattutto da autori russi e cinesi, la componente aliena del nuovo pianeta) e di ottenere un successo planetario; per il divertimento datomi dal secondo, i robottoni, le mazzate, i mostri, il non-bacio finale: una gita nei miei dieci anni.

SDCC '13: Legendary Pictures/Pacific Rim

Legendary Pictures/Pacific Rim (Photo credit: shine_blitz_on)

Eppure, io sono uno di quelli che ODIA gli stereotipi e li ammazzerebbe tutti.
Ho odiato, ad esempio, i russi alti e biondi e falsissimi di Pacific Rim, i cinesi tutti uguali, il solito surrogato di marine che fa il discorsetto pre-apocalisse e tutti quanti “Alèèèèèèèèèè! Rischiamo la vita!”, il pilota dell’altro Jaeger immaturo e che fa il galletto, mentre il protagonista ha i traumi pregressi ed è buono e riflessivo, nonché l’Holly di Holly e Benji degli Jaeger, e ne potrei aggiungere milioni, e magari ancora uno: le maledette scarpette rosse…

Ho odiato la storia degli umani cattivi e degli alieni buoni di Avatar, del marine che tradisce la patria di sciocchi e avidi umani. Ho odiato che gli umani fossero avidi e sciocchi nel tremilaventordici. Si suppone che nel futuro un minimo di consapevolezza e maturità la nostra specie l’abbia raggiunto, altrimenti che cazzo esistiamo a fare? Per tacere dell’uccello gigante cavalcato da Jake (mi pare si chiamasse così, il protagonista), dinnanzi al quale i puffi blu si prostrano, ché loro sono primitivi, ma buoni. I buoni selvaggi, etc…

C’è però un fatto: che Avatar mi prometteva CGI, 3D e effetti speciali mai visti prima. Nient’altro.
Pacific Rim mi prometteva invece robot giganti e mostri marini. E scontri mai visti prima. Nient’altro.

Ed entrambi mi hanno dato le due cose che cercavo, in misura tale da coprire l’urlo di munch degli stereotipi, che gridavano vendetta.
Ma capisco anche chi si aspettasse altro, oltre quello. Magari anche una storia e dei personaggi, che male non fanno.
E ammetto anche che, se si fossero impegnati di più a darci novità e meno stereotipi, staremmo qui a discutere di due capolavori. Che non sono. E non lo saranno mai, proprio a causa di quegli stessi stereotipi.

Sembra che sia impossibile coniugare le centinaia di milioni di dollari investiti in certe produzioni e ottenere, parallelamente alle mazzate e alla CGI, anche la qualità dell’impianto narrativo.

E il problema sta da entrambi le parti:

Audience

(Photo credit: Brett Sayer)

a) da chi i soldi ce li mette, e pretende un ritorno economico, per arricchirsi (più che giusto) e per continuare a fare lo stesso mestiere

b) dal pubblico, che non è affatto vero che vuole storie nuove. Pretende anzi di camminare sempre nei binari rassicuranti del già visto, magari mascherato un po’, esige le storie prevedibili, che s’intuisca un’ora prima come vanno a finire e che devono andare a finire così, pena i fischi a fine programmazione.

La compagnia di produzione sa che il pubblico, nonostante ci piaccia pensare il contrario, è composto per la maggior parte da occasionali: ovvero persone che nella vita s’interessano d’altro e che vanno al cinema per svago, spesso ignorando i nomi coinvolti nel film che hanno deciso di vedere facendo testa o croce. A costoro piacciono personaggi immediatamente riconoscibili e eventi comprensibili.
Tant’è che, quando si evade dai cliché, il film viene subito relegato, dalle stesse compagnie di distribuzione, nel ghetto delle “sperimentazioni”.
In pratica, già si sa se un film incasserà cinquecento milioni di dollari o cinque. E lo si sa anche dai motivi che esso contiene.

Il pubblico, da parte sua, si trova spiazzato da qualunque scelta narrativa che non corrisponda ai suoi schemi mentali, o agli schemi mentali letti chissà dove. Da qualche manuale acquistato in edicola, magari.
Per cui, storce il naso a prescindere se si ritrova proiettato un film un pochino più “alessandrino” rispetto a ciò che prevedeva di vedere.
E invece applaude a scena aperta di fronte al Thor della Marvel perché non c’è dramma, come gli appassionati volevano, ma le scenette comiche del tizio in mutande, che fanno ridere… (sì, vabbé…)

STEREOTYPES KILL IDEAS

STEREOTYPES KILL IDEAS (Photo credit: Hum.as a.k.a. cHappy!)

Il pubblico non è fatto di appassionati.
Non siamo noi, blogger che ci facciamo il culo piatto a vedere film dalla mattina alla sera, o a leggere i libri o i fumetti, il pubblico.
Il pubblico è fatto da gente che legge un paio di libri alll’anno, che cerca su internet il nome di quell’attore del film che ha visto l’altra sera, per caso, di cui non ricorda nemmeno il titolo, o quel fumetto trovato per caso nel cesso della stazione, o letto nell’intervallo di tempo tra un treno e l’altro.
E chi ci investe i soldi, questo lo deve tenere presente. Perché si tratta, appunto, di un sacco di soldi.
È vietato sbagliare, quando in ballo ci sono centinaia di milioni di dollari.

Però, d’altronde, la storia è evoluzione. E quindi arrivo io, e voi altri, a sbraitare quando il novanta percento dei film in sala sembrano fatti con lo stampino.
Perché ok mettere gli stereotipi. Ma se almeno in ogni film si osasse inserire almeno un paio di novità, forse guadagnereste un paio di milioni in meno, cari produttori, ma noi appassionati divoratori ne ricaveremmo un po’ di salute mentale in più. Non siate avidi.
È profondamente ingiusto, o come tale lo percepiamo, assecondare la pigrizia del grande pubblico che pretende (e s’incazza se non lo ottiene) di sedersi in poltrona rossa e di venire ingozzato, come le anatre con le quali si fa il foie gras, di cinebacchettoni (neanche più cinepanettoni).
Che ne dite, cari produttori? Riusciamo a firmare questo compromesso storico?

Quattro novità ogni dieci stereotipi.

Non chiediamo altro. Non ancora.

Concedeteci almeno questo. Per illuderci che le nostre voci non si perdano nell’oblio della logica di mercato.


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