È un istinto innato e antichissimo quello di produrre e consumare narrazioni. Se intere saghe del nostro passato sono scritte sulle rocce è perché da sempre noi umani siamo animali narranti.
Algeria – Pittura di Tan Zoumaitak
Perché ci piace tanto raccontare le storie?
Per quale motivo da sempre gli esseri umani si sono presi la briga di narrare storie con lo scopo di trasmettere informazioni di ogni tipo?
Nel suo libro L’istinto di narrare (Bollati Boringhieri, pag.280), Jonathan Gottschall, docente di letteratura al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, sviluppa un’interessante ipotesi evoluzionistica.
Il fatto che le storie siano un universale umano, dice in sostanza Gottschall, dimostra con evidenza una loro finalità biologica. Proprio come il pollice opponibile (senza il quale la nostra mano non avrebbe potuto afferrare nulla di ciò che ci è servito per evolverci) lo storytelling ricopre un posto ben preciso nella traiettoria dell’evoluzione.
Facciamo finta che…
Molti evoluzionisti ritengono che raccontiamo storie per evadere dalla realtà, ma questa teoria non regge, dice Gottschall. Se così fosse – ammettendo cioè che assistiamo a un dramma di Shakespeare o leggiamo un romanzo solo per il piacere di esplorare la condizione umana – questa comunque non sarebbe una finalità biologica. L’evoluzione, si sa, è implacabile e utilitaristica. Le storie ci possono educare, rendere più profondi, darci piacere ma ciò non significa che abbiano una finalità evolutiva.
Amiamo le storie tragiche
Per giunta, le caratteristiche di fondo che si riscontrano nelle storie più amate non sono a lieto fine. Anzi, sono zeppe di disgrazie. Quelle dei miti che ci hanno fatto evolvere raccontano di orrori, massacri, sacrifici umani e animali. Pensate alle fiabe, alle narrazioni religiose, pensate a Edipo che si acceca, a Medea che uccide i figli, ai drammi di Shakespeare… tutto l’universo narrativo è popolato di cadaveri.
La fiction ci libera sì temporaneamente dai nostri problemi, ma lo fa irretendoci in un groviglio di conflitti, tensioni, minacce di morte. Senza disgrazie, niente favole. Perché?
Il motivo, dice Gottschall, è che le storie sono uno spazio nel quale ci esercitiamo a sperimentare surrogati della nostra amara realtà: moriamo senza morire davvero, odiamo senza odiare davvero, ci vendichiamo dai torti subiti senza ammazzare nessuno.
Ci addestriamo in sicurezza come quando i piloti imparano a volare con un simulatore di volo. Perciò, da che mondo è mondo, raccontiamo e consumiamo storie tragiche. Giochiamo così la nostra partita contro il caos e la morte.
Siamo progettati per lo storytelling
Siamo capaci di entrare in empatia con i protagonisti delle narrazioni grazie ai famosi neuroni specchio, aree del cervello che si attivano quando un animale compie un’azione e quando lo stesso animale osserva la medesima azione compiuta da un altro soggetto. I neuroni specchio di una scimmia si attivano quando essa afferra una noce ma anche quando vede un’altra scimmia afferrare una noce. Anche nell’uomo il meccanismo è lo stesso.
La teoria dei neuroni specchio
Questa teoria ci dice in pratica che certe aree specifiche del cervello ricreano in noi il dolore o il piacere che vediamo sullo schermo o leggiamo tra le pagine di un romanzo. Se sappiamo ciò che i nostri eroi stanno provando è perché noi stessi proviamo cosa stanno sperimentando. Quando vediamo due che si baciano si attivano nel nostro cervello le stesse cellule che si attivano quando baciamo davvero qualcuno. Una simulazione a livello neurale.
Le Mille e una notte. Wikipedia
La fiction ci addestra alla vita
Con molta probabilità, la nostra attitudine narrativa è l’esito di una necessità evolutiva. Come dire che a furia di simulare la realtà abbiamo via via migliorato la nostra capacità di affrontare i problemi dell’esistenza. I neuroni specchio, costantemente attivati, possono aver rafforzato quelle vie neurali che ci hanno consentito una navigazione competente nei problemi dell’esistenza.
“Gli esseri umani sono creature dell’Isola che non c’è” scrive Jonathan Gottschall “e L’isola che non c’è è la nostra nicchia evolutiva”.
Siamo creature narranti
Sì…siamo creature narranti e anche se la narrativa in forma scritta sembra oggi così marginale nella nostra cultura, questo non significa che la narrazione finirà. L’attrazione che sentiamo verso lo storytelling crescerà insieme a noi e alla tecnologia. Abbiamo l’istinto di narrare. E, raccontando storie, ci salviamo.
Forse la bella Shahrazād questa faccenda l’aveva già capita…che le storie ci salvano dalla morte.