Tutti dichiarano, tutti hanno vinto, tutti saltellano tra un salotto televisivo e l’altro in preda ad una bulimia comunicativa che non ha necessariamente come output un pensiero intelligente ma spesso solo una mitragliata di parole, così, giusto per riempire il silenzio, se non un taglio di barba o un’assunzione di Maalox.
È la politica italiana baby, è quella competizione elettorale recentemente definita dal Premier come il derby tra terrore e speranza, trasformatosi in una minutaglia semiseria che assomiglia più a un derby calcistico di ultima categoria tra iperattivi e paranoici.
Tranne Berlusconi, il quale ha parlato poco ammettendo per giunta la sconfitta, ci sono alcune cose che conviene chiarire prima che il delirio assalga tutti in un turbine di enfasi collettiva.
Cominciamo col confermare che in questa tornata elettorale Matteo Renzi ha senza dubbio trionfato anche se, a ben vedere, i voti raccolti dal suo partito sono i soliti 11 milioni, 2 milioni in più di quelli raccolti alle Politiche 2013 da Bersani ed un milione in meno di quelli raccolti dal primo Pd di Veltroni.
Si può parlare di grande vittoria?
Forse risulta un tantino esagerato in quanto l’abituale recinto elettorale della sinistra non viene sfondato, l’affluenza non ha toccato picchi notevoli (Renzi ha preso il 40% del 50%) ed i principali competitor hanno subito un vero e proprio tracollo a favore dei partiti minori e dell’astensione.
Trionfo è sicuramente in termini di seggi, di prestigio europeo e di resistenza all’astensione, ma non certo in termini di voti che rimangono grosso modo i soliti.
Il difficile arriva adesso, con le promesse da mantenere, i conti da far quadrare e le riforme da fare. Non vorremmo essere nei suoi panni.
La recita non potrà continuare all’infinito.
Anche Angelino Alfano ha vinto e lo dice con una naturalezza imbarazzante; quella stessa attitudine a negare la realtà che ci ha regalato in questi mesi in cui ha raccontato di essere la sentinella del centrodestra diversamente berlusconiano nella compagine di Governo.
Ha dovuto mettere insieme Ncd, Udc, Mario Mauro e tutta la classe dirigente del vecchio Pdl per superare di un soffio lo sbarramento e prendere un milione e 200mila voti.
L’Udc, da sola, ne ha presi 2 milioni alle scorse Europee e 608mila alle passate politiche.
Pochi quindi i 500mila voti di Alfano?
Beh, per chi fa bau bau a Berlusconi proponendosi di costruire un nuovo centrodestra partendo da un’alleanza organica con la sinistra, non è moltissimo.
Adesso fa il difficile con Forza Italia e la voce grossa con Renzi?
Incute meno timore di Dudù quando s’incazza sul serio.
Anche Fratelli d’Italia ha raddoppiato il numero di consensi rispetto alle Politiche, fermandosi ad un soffio dallo sbarramento e rivendicando comunque un risultato buono in termini di voti ottenuti, nonostante rimanga la delusione per la mancata elezione di eurodeputati.
Risultato ottimo, anche se Giorgia Meloni è troppo navigata per non comprendere che buona parte dei nuovi voti acquisiti è composta da delusi (o scoraggiati se volete) dal partito capofila della coalizione appoggiati pro tempore su movimenti collaterali come Fdi e Lega.
Non si può aderire al Pdl (e quindi al Ppe) per poi uscirne sdegnati alla bisogna, rivendicando il ruolo di Le Pen italiana dura e pura.
E con Alemanno, La Russa, Magdi Allam e Bruno Sacchi della Terza C pretende di atteggiarsi a novella Marine?
Certi comportamenti ondivaghi non pagano forse perché la destra è ancora percepita come lealtà, onestà ed onore, per cui il girotondo che porta da Fini a Berlusconi fino a Le Pen non è ben percepito, così come il parallelismo con la destra francese appare improprio.
Quest’ultima ha preso per anni pomodori in faccia ma ha tenuto il punto attendendo con tenacia il riscatto.
In questo modo si è resa credibile ed è apparsa coerente come lo fu il Msi-An nel 1993.
Tutti i partiti hanno una parabola storico-sociale in cui si creano condizioni più o meno favorevoli: mentre il Front National vive il momento di boom dopo l’eroica ostinazione che ha animato le imprese di una destra francese condannata ad essere marginale (come il Msi del primo Gianfranco Fini candidato sindaco di Roma), Fratelli d’Italia vive invece il tratto discendente della parabola.
Il frangente di gloria gli ex missini se lo sono bruciato alcuni anni orsono, in quanto tutti comprendono che l’attuale classe dirigente impegnata a sbandierare i valori antichi è la stessa che ha mostrato tutto il proprio disvalore nella gestione di un partito come Alleanza nazionale, che ha rappresentato il punto di massimo in termini elettorali ma il punto più buio in termini politici e morali nella storia della destra.
O si cambiano le facce o non si va troppo lontano.
L’elettore di destra è esigente e non lo si accontenta con un simbolo matrioska o con un selfie scattato con la diva politica più in voga.
Sul grande sconfitto del momento (Beppe Grillo) si è detto tutto, forse troppo.
Il posizionamento a sinistra e certi toni sgangherati hanno puzzato un po’ di farsa, di quel teatrino che si diceva di voler abbattere.
La notte dei lunghi coltelli è iniziata anche tra i Cinque Stelle e già qualcuno ha dato la colpa al popolo pecorone (come se esso fosse “sovrano” solo quando “vota bene”), mentre altri reclamano l’epurazione delle prime donne gradite al capo (Di Battista e Di Maio) in perfetto stile da vecchio partito politico che fa appello alla Togliattiana autocritica.
Qualcuno reclama anche le dimissioni di Grillo (il quale in realtà aveva detto che in caso di sconfitta se ne sarebbe andato) come se il comico avesse degli incarichi da cui potersi dimettere.
Avete capito il livello del dibattito?
Grottesco, surreale e privo di contenuti.
I veri, grandi assenti di questa tele-svendita.
Vito Massimano