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Due ovvie premesse.
La prima.
Loong Boonmee raleuk chat (2010) non è un film, è un progetto.
O meglio, è parte di un progetto chiamato Primitive (info qui) che abbraccia al suo interno due cortometraggi e un’installazione.
Peculiarità del proposito sembra essere la forte contestualizzazione all’interno della geografia thailandese. La città di Nabua dove il tutto è ambientato, oltre ad essere luogo di confine un po’ come il cinema di Weerasethakul, è stata teatro di violenze feroci tra gli anni ’60 e ‘80 a causa della vicinanza col Laos al tempo sotto il regime comunista. Quindi, prima di pensare alla spiritualità che permea l’opera, un occhio va buttato anche sui significati socio-politici che il film a suo modo propone.
La seconda.
È la scoperta dell’acqua calda, ma vale la pena sottolineare nuovamente la distanza, il distacco, la lontananza che sussiste tra noi e questo cinema figlio di una cultura che non appartiene al mondo che conosciamo. Per questo motivo è possibile che ogni sforzo ermeneutico relativo al film sia sprecato perché l’oggetto da interpretare non trova nell’alfabeto occidentale giusta pronuncia, eppure allo stesso modo è possibile che tutte le interpretazioni siano valide trovando così nella polisemia la propria ineguagliabile cifra distintiva.
IL REGISTA CHE SI RICORDA I FILM PRECEDENTI
Ogni Autore che si rispetti ha nella sua filmografia una coerenza poetico/tematica/stilistica più o meno forte, non si sa perché ma ciò accade sovente con i registi orientali, e Weerasethakul conferma la tendenza.
Se Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti rappresenta, per ora, l’ultimo tassello del suo mosaico, cercando segni di riconoscimento interni all’opera ecco che se ne scovano in quantità.
Pur avendo, come vedremo, un legame con tutti gli altri film della sua carriera, il dialogo serrato lo si ha con Tropical Malady. E fin da subito, già dall’incipit, avviene un richiamo quasi iconografico al suddetto film, infatti in Sud pralad lo spirito di un bue si perdeva nella foresta per ricongiungersi all’indimenticabile immagine dell’albero illuminato, qui il prologo mostra un bue che si libera dal proprio laccio e sornione si mette a vagare nella foresta. Ma, ovviamente, c’è dell’altro. In una scena del film del 2004 ad un certo punto, in una conversazione fra il soldato ed il contadino (qua presente in qualità di nipote) quest’ultimo dice che c’era un suo zio in grado di ricordarsi le proprie vite precedenti, parimenti nel film del 2010, in un’altra conversazione che ha similare set, una specie di palafitta poggiata sul terreno, la cognata dice allo zio che suo padre soldato, molto tempo fa, venne mandato nella giungla per acciuffare dei fuggiaschi, ma non adempì al compito perché andò a cacciare gli animali del luogo con i quali, alla fine, imparò a comunicare, e questo è proprio ciò che accade in Tropical Malady.
Aldilà delle “coincidenze” che accomunano la pellicola vincitrice del Premio Giuria e quella della Palma d’Oro (ecco un altro punto di incontro… festivaliero), l’aspetto che le conduce sulla medesima traiettoria è quello di aver ridotto le distanze tra il ricordo e chi ricorda. La morte si materializza sullo schermo sottoforma di spirito cosicché la memoria diventa appendice del presente, i fantasmi si incarnano, i defunti rivivono, i vivi muoiono.
Poi ci sono ulteriori indizi che ricompongono il quadro weerasethakuliano.
Si può trovare nel contrasto fra giungla e città un marchio di fabbrica rintracciabile soprattutto in Blissfully Yours (2002), al quale si lega il discorso seppur accennato ma in qualche modo radicato della clandestinità, e che annovera inoltre, in tutti e due i film, la presenza della ragazzina Roong.
In aggiunta, il tono conviviale che incredibilmente permea buona parte della narrazione nonostante vivi e morti interagiscano sullo stesso piano (emotivo e dimensionale), trova essenza dicotomica nell’inquietante tragitto che porta la famiglia all’interno della caverna. Tale contrasto è similare al lungo piano sequenza di Syndromes and a Century (2006, e la cognata dello zio era presente anche qua) che imbruniva un racconto con punte di melò per gettare – letteralmente – lo sguardo in un buco nero (la fenditura di una grotta?).
Perfino l’episodio della principessa che si specchia nel lago trova un antenato nell’opera omnia dell’autore, e lo fa con The Adventure of Iron Pussy (2003), precipitato culturale thai che ripropone in forma celebrante un certo tipo di cinema seriale in voga negli anni passati.
Tutto molto interessante per chi come il sottoscritto ha avuto la fortuna, e magari anche il coraggio, di guardare i film di mr. Apichatpong dal primo all’ultimo, immagino però che per chi invece non ha avuto l’ardire di affrontare tale mole cinematografica, non tanto numerica bensì cerebrale, la descrizione di un tale sistema autoreferenziale potrà apparire superflua se non una vacua vanteria di chi l’ha scritta.
Per questo, è giunto il momento di inoltrarsi nei mistici sentieri di questo film etereo e terreno.
LO ZIO BOONMEE CHE SI RICORDA (E LIBERA) LE VITE PRECEDENTI
Fautore di un cinema reincarnante nonché unico nel suo genere, e quindi vicino ad una rivoluzione, almeno sul piano strutturale [1], Weerasethakul maneggia la storia di questo zio moribondo con la solita personalità. Seguendo la cronologia scenica, notiamo che sul mero piano dei fatti il protagonista non vedrà (e non racconterà) in maniera chiara e lampante eventi del passato, l’unica testimonianza che ci viene offerta è quella dentro la grotta su cui ci concentreremo tra poco.
Chi invece narra qualcosa che potrebbe riguardare Boonmee è, ovviamente, il regista che attraverso due frammenti del passato (il bue dell’inizio ed il pescegatto nel lago) insinua, o meglio, suggerisce a modo suo la possibilità che l’anima dello zio prima di sedimentarsi per il tempo a lui concesso nel corpo dell’uomo, sia trasmigrata in altri corpi, anche animali.
Scordatevi, dunque, un’esposizione solare di vite passate, di ricordi o quant’altro.
Anzi, ai tormenti del malato Boonmee, che tormenti non sono vista la dignità con cui lui e i famigliari accettano la morte, si legano suggestioni che Weerasethakul non lesina di certo, tanto che la cena iniziale potrebbe benissimo rappresentare il twist conclusivo di un qualunque altro film con mogli decedute che si materializzano e figli tramutati in scimmie dagli occhi rossi.
Tale segmento merita attenzione perché sul piano teorico l’allarme rosso della ridicolaggine potrebbe lampeggiare sonoramente, invece il regista riesce ad eliminare ogni sospetto di farsa donando naturalezza a questo assurdo incontro intra-dimensionale, ed anche lo scimmione, retaggio, forse, della sua formazione fatta anche di cinema bis – “quelle scimmie di cui ci raccontavano quando eravamo bambini” –, pur essendo il mostro tipo di, appunto, un b-movie, è circondato da un’aura soprannaturale, pregna di quella sacralità che il buddismo ha nei confronti degli animali.
A questo punto è inevitabile soffermarsi sulla sequenza della grotta.
Anticipata da una lunga camminata in mezzo alla natura impervia che istituisce una tensione palpabile (il respiro affannato dello zio), all’interno della caverna, che oltre a sembrare un tempio con quelle artistiche stalagmiti viene definita dallo stesso Boonmee come un utero, un luogo in cui tempo fa era nato anche se sotto spoglie non umane, è qui che la testimonianza di una vita precedente prende forma con l’inquadratura di alcuni pesciolini dentro ad una pozza d’acqua [2] la quale unita alle parole del protagonista fa pensare di come la sequenza del pescegatto sia solo apparentemente slegata alla storia.
Ma superando queste congetture, è meglio porre l’occhio di bue sul discorso che lo zio fa prima di morire. Sognando il futuro dice che un’autorità sarà capace di far sparire le persone attraverso un fascio di luce che ne proietta il passato su uno schermo [3]. In nome di quella polisemia sopraccitata nulla ci vieta a pensare che questa autorità sia Weerasethakul in persona il quale col su fascio di luce (d’altronde il cinema è luce) decide, nello spazio di un film, cosa raccontare di una vita, e che sia di questo tempo o di un altro poco importa.
Ciò che accade dopo il passaggio nella caverna fa passare in secondo piano la dipartita di Boonmee poiché ci troviamo paradossalmente in un luogo di (ri)nascita, in un luogo di nuove vite.
Infatti vediamo in una stanza moderna la cognata e una ragazzina a cui si aggiungerà poco dopo il nipote. Qui si concretizzano, praticamente deflagrano, due classici stilemi del regista, da una parte abbiamo la simmetria tra giungla e corrispondente città, e dall’altra una nuova partenza della narrazione con il nipote diventato monaco e la donna che sostiene di non conoscere poi troppo bene il cognato defunto, elementi, questi, che sbugiardano quanto visto fino a quel momento.
Tirando le fila dopo una visione del genere, si acquista la certezza che il cinema di Weerasethakul non ha certezze, e aldilà dell’apparente contraddizione, ciò che sazia il nostro occhio e la nostra testa è una lezione di rigorosa alterità che apre porte su mondi di cui non immaginavamo l’esistenza, e il cinema che diventa veicolo di tutto ciò ha nei film di Apichatpong Weerasethakul frammenti inafferrabili di tali universi, ritratti (in)visibili di storie che proliferano su più livelli, sensazioni non allineate al comune sentire, o come li definisce Giulio Sangiorgio (link) “esemplari di un cinema che, placidamente, libera la mente”.
La libera come il bue-Boonmee che all’inizio si svincola dal proprio laccio, come il pesce-Boonmee che accoppiandosi con la donna vuole emanciparsi dal regno animale, come l’uomo-Boonmee che vede la morte come modo per espiare le proprie colpe terrene (“ho ucciso tanti comunisti e tanti insetti”), o come l’anima che vola via dal corpo di quelle persone imbambolate di fronte alla tv.
I fantasmi sono legati alle persone, sono legati alla vita.
E al cinema di Weerasethakul.
______
[1] Qui è meno evidente rispetto alle opere precedenti, ma la narrazione bipartita di Weerasethakul è e resta un escamotage tra i più spiazzanti mai visti.
[2] Altra strada rafforzativa per decrittare. L’acqua, da elemento vitale quale è, oltrepassa il piano simbolico: viene offerta alla moglie fantasma, è l’ambiente naturale del pescegatto, è componente indispensabile per la dialisi. E così perfino la doccia del monaco sembra avere un ruolo: l’acqua generatrice di vite.
[3] Non c’entra niente, c’entra tutto. A tal proposito consiglio la visione dell’ipnotico corto Phantoms of Nabua (lo trovate qui) che alla luce delle parole di Boonmee acquista più senso, o magari un senso ulteriore.
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