L’Abri, un film-documentario di Fernand Melgar. Svizzera. Concorso internazionale.
Lo svizzero Melgar torna a indagare il mondo dell’immigrazione in Svizzera e di come la Svizzera regisce e risponde. In questo L’Abri, terzo documentario di una trilogia sul tema, entra in un dormitorio di Losanna per senza casa. Non così ovvio. Non il solito docu virtuosamente e piattamente politically correct. Voto 7
Intorno a Fernand Melgar tre Locarno fa scoppiò un casino vero, allorché in conferenza stampa post-palmarès il presidente della giuria Paulo Branco accusò di fascismo il suo Vol Spécial, girato in un centro di permanenza temporanea per immigrati del cantone di Vaud. Uno di quei posti dove si tengono in standby gli stranieri in attesa di valutare se hanno i requisiti per restare o se devono essere espulsi. Rimpatriati con un vol spécial, per l’appunto. Rispondendo alla domanda di un giornalista ticinese Branco accusò Melgar di aver dato troppo spazio nel film ai burocrati del centro reponsabili e alle loro ragioni. Racconto questa storia perché, se in Italia arrivò solo una pallida ecco della polemica, qui la faccenda tenne banco per parecchi giorni. E anche perché quel film era il secondo di di una trilogia progettata da Melgar, che si conclude proprio con questo L’Abri, sulla condzione degli stranieri in Svizzera, su come li si accoglie, su come li si rigetta e rifiuta. Stavolta con le telecamere va a indagare quel che viene chiamato il bunker, un claustrofobico budello sottrraneo a Losanna adibito a dormitorio per senza casa. Massima capienza 40 posti (ma qualche giorno dopo si aumenterà, vista l’emergenza, fino a 70). Siamo in inverno, manca poco a Natale, la temperatua di notte va sottozero, le strade sono ghiacciate. Al portone d’acciao del rifugio, l’abri del titolo, si assembrao – tenuti sotto controllo dalla security – decine e decine di stranieri in cerca di un letto e di un po’ di caldo, africani, nordafricani, rom, est europei, sudamericani. Bisogna scegliere, bisogna selezionare, non c’è posto pe tutti, tu sì, tu no. Incaricati del duro lavoro sono un ragazzone di buon cuore e un paio di sue colleghe, sempre troppo buoni e comprensivi stando al loro capo, uno svizzero freddo e ragionante ipermaniaco dell’ordine e dell’organizzazione. Si dà la precedenza a vecchi, donne e bambini, ma c’ anche qualche furbo che per non restare fuori si fa prestare bambini da altri. Ogni volta ci sono i sommersi e i salvati, chi sta al caldo e chi resta fuori al gelo. I dormitori sono queli che sono, tutti si lamentano della puzza, i responsabili cercano di convincere la gente a farsi una doccia prima di dormire, masenza troppo successo. “Gli africani sono più ordinati, lasciano le camerate pulite, mica cone i rom che sporcano dappertutto”, si lamenta l’inflessibile capo. I rom dal canto loro si lamentano dell’aggressività degli africani. La solidarietà tra reietti non esiste, non è mai esistita, non è una novità. Melgar esce ogni tanto dal bunker seguendo con la sua macchina da presa un mauritano, Amadou, e una coppia di latinoamericani. Tutti scappati via dalla Spagna per mancanza di lavoro e ora finiti sulla strada in Svizzera, sperando di trovare un posto qualsiasi. Non c’è molto altro in L’Abri, ma è già molto. Melgar non ideologizza, guarda, osserva, registra. Dà voce a chi sta da una parte e dall’altra. Applica la grande lezione documentaria di Frederick Wiseman. Niente ‘talking heads’, le faccione che parlano e straparlano in tanti documentari, niente intreviste, nessuna voce fuori campo, solo raccordi e editing di materiale per così dire presentato nella sua oggettività. Facile liquidare L’Abri come un film politicaly correct e di nuoni sentimenti damicisiani, frutto del solito senso di colpa dell’Eiropa ricca, ma quando certe facce te le vedi lì, sullo schermo, quando non puoi distogliere lo sguardo, be’, vi asicuro che non si può non restare scossi. Qui in Svizzera si punta molto su L’Abri per il Pardo d’oro, e l’impresa potrebe anche riuscire.
Magazine Cinema
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