Per chi non l’avesse ancora saputo, da quasi un mese mi sono londonizzata. Un clichè, sotto certi punti di vista: l’italiana che se ne fugge nella capitale inglese, in cerca di fortuna e risposte. L’ho fatto anch’io, per motivi non dissimili: per occupare questo spazio vuoto che mi separa dalla laurea (l’ultima, si spera) e dall’uscita del nuovo romanzo, per lavorare oltre il confine, per parlare inglese, per incontrare questo spasmodico ventre multiculturale che è Londra, e cavarci qualcosa. Che cosa, esattamente, lo saprò tra un po’. Intanto ho una casa (una stanza, anzi) e un lavoro fresco fresco: viviamo a Mile End, sulla Central Line, a due passi dalla famosa Brick Lane e dal profumo di curry dei ristoranti bangladesi; quando mi affaccio alla finestra, vedo più burqa, veli e abiti colorati che pallide facce british. E non mi dispiace. L’East End è un abbaglio di odori e verdure sui banchi, di facce e piedi che sembrano portarsi dietro la polvere dei deserti, anelli agli indici, sandali, occhi che brillano dalla fessura severa lasciata dalle norme religiose; a Whitechapel, ogni giorno, si monta e si smonta un mercato che ricorda molto quelli visti a Fes, nelle giornate marocchine: un volta qui s’aggirava Jack The Ripper, ora si vendono falafel e patate. Anche le ragioni di gioia, qui, sono piuttosto variegate: la settimana scorsa l’Inghilterra impazziva per William e Kate, ieri la popolazione dell’East End si è riversata in Brick Lane per il capodanno bangladese, e per il mercato di specialità culinarie da tutto il mondo che ogni domenica stuzzica gli stomaci. Mi sono londonizzata, e anche pakistanizzata, bangladesata, arabizzata. Il lavoro, invece, è l’aspetto più divertente: da un paio di giorni faccio la barista da Caffè Nero che, per chi non avesse mai sentito il nome di Caffè Nero, altro non è che una catena inglesissima di caffetterie. Inglesissima, ma il cui motto è portiamo l’italian style dei bar, e facciamo secca la concorrenza. Ci riescono abbastanza, devo dire: il lavoro in sé è anche divertente, salvo il fatto di dover imparare a memoria la preparazione di ventitré bevande diverse e di dover sorridere sempre e comunque, perché “the customer is the king”. Ma tant’è. London is London. Ogni mattina, appena mi sveglio, faccio colazione leggendo Corriere e Repubblica: mastico i cereali, mi mordo le labbra a quasi tutte le notizie; e mi manca l’Italia, certo, ma allo stesso tempo provo una tristezza feroce, una voglia di ritorno che sa più di schiaffo. Porto le parole di Pino Maniaci ancora nella gola. L’immagine di Palermo sotto un assaggio di Scirocco, e l’idea di essere capitata in un luogo solo per questioni di contingenza, come tutti. L’idea della bellezza, e della sfrontatezza. Lodi che affoga in un aprile troppo caldo. Case, persone, una lingua. Sto leggendo Bilal, reportage di Fabrizio Gatti sul viaggio della speranza di migliaia di africani verso l’Italia; storia di trafficanti e Stati corrotti, storia dell’Italia che ci convince di aver prodotto le leggi migliori, la tutela migliore, e invece costerebbe molto meno rilasciare un passaporto in regola, piuttosto che raccogliere cadaveri sui fondali di Lampedusa. Costerebbe meno, a voler parlare solo di soldi. E dalle nostri parti riusciremmo a chiudere gli occhi senza colpa, la notte. A Londra il calderone di Paesi e tradizioni è spina dorsale dell’identità di Londra stessa: mi chiedo, ogni giorno, quando prendo un autobus e sono l’unica europea a bordo, come è stato possibile. Qui vicino a casa c’è una moschea. I bambini escono felici, e poi corrono al parco. Dalle mie parti l’unico felice è sempre il pagliaccio. La gente credo non lo sia più. E chi non ha ancora capito in che situazione siamo, lo comprenderà presto, e a quel punto si sentirà anche immensamente sciocco. Il pagliaccio e gli altri pagliacci, invece, non si sentiranno mai in torto, mai stupidi. Continueranno a sorridere. E io, qui a Londra, preparo hot chocolates ed espressi: evviva l’italian style.
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