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Se si può fissare una data d’inizio del British Blues, fu il giorno dell’autunno del 1958 in cui Muddy Waters tenne il suo primo concerto a Londra. Fino a quel momento gli inglesi avevano pensato al blues come ad una musica acustica vagamente affine al folk, per cui fu uno shock per il pubblico presente scoprire che Muddy suonava una chitarra elettrica. Più di un musicista blues inglese nacque quella sera. Il chitarrista Alexis Korner e l’armonicista Cyril Davies ne rimasero così impressionati da mettere assieme un gruppo elettrico dal nome Blues Incorporated. Si esibivano al Marquee Club di Londra ed il loro unico disco, stampato nel 1962 dalla Decca, si intitola infatti R&B From The Marquee.
Un’altra data significativa fu il 17 ottobre 1961, quando un diciottenne Keith Richards incontrò alla stazione ferroviaria di Dartford un altrettanto giovane Mick Jagger, che portava sotto braccio un paio di dischi di rhythm & blues ricevuti per posta dalla Chess Records di Chicago (Rockin’ At The Hops di Chuck Berry e The Best Of Muddy Waters). Non potevano saperlo, ma quel giorno sarebbe stato mitizzato quanto quello in cui Robert Johnson incontrò il diavolo al crossroad. In quell’occasione fu infatti stipulato il patto di sangue che avrebbe portato alla nascita dei Rolling Stones.
Per entrare nella blues band del chitarrista Brian Jones e del pianista boogie Ian Stu Stewart, Jagger e Richards dovettero sostenere un’audizione. Accettati («Jagger è il miglior cantante rhythm & blues da questa parte dell’oceano, e non dico forse» era la testimonianza di Keith Richards), il bassista fu identificato in Bill Wyman che, più vecchio dei compagni, possedeva un amplificatore a cui gli altri potevano collegare il jack della chitarra elettrica. Un amico di Wyman faceva da batterista.
Gli Stones esordirono al Marquee Club il 12 luglio del 1962 con una pubblicità sul Melody Maker che diceva «siamo una blues band, non un gruppo rock», con un repertorio di pezzi di Jimmy Reed, Robert Johnson e Muddy Waters. L’accordo era che potevano suonare durante l’intervallo di riposo dei gruppi di Trad Jazz, le dancing band il cui repertorio è citato da Joe Jackson nel disco Jumpin’ Jive.
Nel 1963 riuscirono a guadagnarsi il miglior batterista sulla piazza, Charlie Watts, che all’epoca era così gettonato da suonare contemporaneamente in quattro gruppi diversi. Era l’unico della band ad essere pagato, tanto i compagni ci tenevano ad averlo, mentre ognuno degli altri Stones svolgeva durante il giorno un altro lavoro per
sbarcare il lunario. Il successo del loro gutturale blues elettrico fu istantaneo. Da subito si guadagnarono un pubblico di centinaia di giovani che entravano al Marquee per sentirli ed uscivano quando i gruppi jazz riprendevano a suonare.
Il dettaglio non sfuggì agli impresari. Trovarono così un ingaggio fisso al Crawdaddy Club, un locale di rhythm & blues nella zona di Richmond che era gestito da Giorgio Gomelsky (il futuro impresario di Yardbirds, dei Trinity di Brian Auger e Julie Driscoll e dei Gong di David Allen). Con la sola potenza del passa parola il loro incendiario show divenne la cosa da vedere in città. Fuori dal locale si formava la coda del pubblico in attesa di entrare, al punto che il Crawdaddy stesso traslocò in uno spazio più grande. Gli Stones si guadagnarono articoli su riviste come il Record Mirror, e al loro pubblico si mischiarono altri musicisti compresi le sue maestà dei quattro Beatles in persona. Fu attirato dal clamore anche Andrew Loog Oldham, un impresario affascinato dal mito di Phil Spector, che li mise sotto contratto. Gli Stones gli avevano fatto balenare l’idea degli anti-Beatles.
Si dice che il rock’n’roll sia stato inventato da Chuck Berry, e che le sue regole siano state scritte da Beatles e Bob Dylan. Amen: è tutto vero. Come è vero che non ci fu mai una rock’n’roll band al mondo più grande dei Rolling Stones! Il giornalista Nick Kent che li vide ancora ragazzino nei giorni del loro esordio, scrisse che non si era mai visto nulla di paragonabile al loro show. Mentre gli altri cantanti erano dei piacioni tutti sorrisi e moine con il ciuffo rockabilly, gli Stones avevano un’aria minacciosa. Avevano un look da teppista e si lasciavano cadere i lunghi capelli sugli occhi. Le loro canzoni erano i blues elettrici cantati prima di loro solo dai neri di Chicago.
Dopo un rifiuto della EMI, Oldham riuscì a procurare loro un contratto con la Decca. Significativamente un anno prima era la Decca ad essersi lasciata scappare i Beatles, che avevano poi trovato un contratto alla EMI.
Oldham decise che Ian Stewart non andava bene per l’immagine del gruppo ed i ragazzi loro malgrado accettarono. Stu avrebbe continuato a suonare il piano, a guidare il pulmino e caricare e scaricare gli strumenti, ma in qualità di membro esterno.
Il primo 45 giri uscì il 7 giugno del 1963. Si intitolava Come On, una cover che Chuck Berry aveva scritto prima di entrare per la seconda volta in galera, ed entrò in classifica. Subito i ragazzi partirono per quella che si sarebbe rivelata l’esperienza formativa più importante della loro carriera: un tour britannico come spalla a Little Richard, Bo Diddley e gli Everly Brothers, con cui divisero il palco e da cui ebbero modo di imparare i trucchi di prima mano, proprio dagli artisti che avevano idolatrato sui dischi d’importazione.
Il secondo singolo fu I Wanna Be Your Man, una cover offerta loro dai Beatles, che sfiorò la Top Ten e fu stampato anche negli USA dalla London Records (ma solo dopo Not Fade Away). Il retro era uno strumentale originale della band, che portava la firma di fantasia Nanker/Phelge, dal nome di un ex compagno di stanza di Jagger e Richards. Gli Stones passarono il resto dell’anno in perenne tour sul furgone guidato da Stu, per rendersi popolari ad una provincia inglese che ancora li ignorava, mentre Not Fade Away, cover della saltellante canzone che Buddy Holly aveva scritto su un ritmo alla Bo Diddley, arrivava al terzo posto in classifica.
Il primo LP uscì in Inghilterra ed in America quasi a metà del 1964 ed in giugno fu organizzato in fretta e furia il primo tour americano. Invece di trovare il trattamento trionfale che aveva accolto i Be-
atles, gli Stones furono maltrattati alla TV da Dean Martin nel suo show, in quella che appariva una reazione della vecchia generazione nei confronti dei giovani capelloni che non capivano e che li avrebbero pensionati («non hanno i capelli lunghi: hanno la fronte bassa» scherzò Dean). Oltre che in grandi città dove erano conosciuti dai teenager, come New York (alla Carnegie Hall) e Los Angeles, erano stati organizzati concerti in posti dove gli Stones erano dei totali sconosciuti, nel bel mezzo della conservatrice provincia americana, che accolse male il loro aspetto straniero. Qualcuno aveva avuto persino l’idea di fissare una data in Texas ad un fiera country con tanto di rodeo, un posto non ideale per dei giovani capelloni inglesi che cantano le canzoni dei neri. Una data fu in Nebraska, dove un poliziotto puntò un’arma in faccia a Brian e Keith perché avevano portato da bere negli orinatoi dove, a quanto pare, era proibito.
A Chicago visitarono i Chess Studios al 2120 di S. Michigan Avenue, che Oldham aveva fissato per un paio di giorni di registrazioni, dove furono accolti dal futuro presidente della Rolling Stones Records, il giovane Marshall Chess, figlio del boss Leonard. Keith raccontò di aver visto Muddy Waters intento a dipingere le pareti, ma è probabile che lo intendesse come metafora anche se la notizia fu data per buona dalla stampa inglese. Alla Chess gli Stones incontrarono Buddy Guy e Willie Dixon, che cercò di piazzar loro qualche
canzone, e registrarono diversi pezzi fra cui It’s All Over Now, Good Times Bad Times e lo strumentale 2120 S. Michigan Avenue, il cui titolo si riferisce all’indirizzo della Chess stessa.
Gli studi di registrazione della Chess sarebbero diventati un appuntamento fisso dei loro frequenti tour americani a venire.
A New York gli Stones fecero la conoscenza di Ronnie Spector, che li scortò all’Apollo Theatre di Harlem per vedere lo show di James Brown, che lasciò loro una forte impressione. In quell’occasione Keith approfondì la sua amicizia con Ronnie.
Al ritorno in patria scoprirono che erano diventati una band molto popolare. Registrarono una serie di singoli blues come It’s All Over Now di Bobby Womack, Time Is on My Side (che entrò in classifica in America), e Little Red Rooster di Howlin’ Wolf.
Molti giovani bianchi americani ascoltarono per la prima volta i blues americani sui dischi degli Stones e fu uno dei meriti della band far conoscere al pubblico bianco Muddy Waters, Howlin’ Wolf e Willie Dixon e Sonny Boy Williamson. Fu un bel modo di restituire il favore agli artisti che li avevano ispirati.
Oldham si era dato da fare per dipingere la band con una fama di cattivi ragazzi ed in questo gli Stones non gli avevano reso il compito difficile nelle loro apparizioni pubbliche e di quelle televisive.
Un suo slogan era: «lascereste uscire le vostre figlie con uno degli Stones?». Un suo merito fu di spingere Jagger e Richards a scrivere canzoni originali, perché non ci sarebbero state cover per sempre. Chiuse a chiave i due musicisti in una stanza minacciandoli di non aprire fino a che non se ne fossero usciti con una canzone, e funzionò. La prima canzone buona fu The Last Time, stampata nel febbraio del 1965 e arrivata al primo posto delle classifiche, ma per arrivarci ne avevano scritte parecchie, finite senza incontrare il favore del pubblico nel repertorio di Gene Pitney o Cliff Richards. La prima canzone a dare successo ad un altro artista fu As Tears Go By, che lanciò Marianne Faithfull come cantante.
Nel 1965 i Rolling Stones erano già la seconda più grande rock band del mondo, alle spalle dei Beatles. Sulle ali della British Invasion, erano arrivati al terzo tour americano, ed il disastroso primo tour del ‘64 era ormai dimenticato. Avevano già piazzato sette canzoni in classifica in America, ma solo due erano arrivate in top ten, Time Is On My Side e The Last Time, mentre in Inghilterra era già stati al primo posto con due cover, It’s All Over Now di Bobby Womack e Little Red Rooster di Willie Dixon / Howlin’ Wolf (entrambe registrate ai Chess Studios) e con The Last Time scritta in proprio da Jagger e Richards. Erano diventati assidui frequentatori degli States, non solo per i concerti ma anche per registrare, come agli RCA di Hollywood dove fecero Play With Fire e (I Can’t Get No) Satisfaction. Racconta Keith Richards che il riff di Satisfaction emerse nella sua mente nel dormiveglia. Il chitarrista aprì un occhio, accese il registratore e con la chitarra acustica fece i tre accordi del suo riff. Quando al mattino dopo il caffè si ricordò vagamente della cosa, andò a riascoltare la cassetta. Dovette avvolgerla per intero perché era registrata fino in fondo: due minuti di chitarra acustica e mezz’ora di russare. Richards scrisse il verso «I cant get no satisfaction» mentre Jagger aggiunse tutto il resto del testo mentre era steso al bordo di una piscina in Florida.
Provarono a registrare la canzone una prima volta agli studi Chess. In quella versione Brian Jones suonava l’armonica. Registrarono la take definitiva due giorni dopo ad Hollywood. C’era una chitarra acustica ed il piano di Jack Nitzsche, che suonava anche un tamburello. Da come la vedeva Richards, Satisfaction era un rhythm & blues che lui immaginava accompagnato dai fiati. Decise di tenerne il posto suonando il giro dei fiati con la Gibson e per far capire che di tali si trattava filtrò il suono della chitarra con un distorsore, un pedale fuzzbox prodotto dalla Gibson stessa, che usava per la prima volta (e non avrebbe più usato fino a Some Girls). Ad Andrew Loog Oldham, che aveva molti difetti ma anche un gran bell’orecchio per gli hit, la canzone piaceva così, mentre Jagger e Richards insistevano per l’arrangiamento con i fiati. Fu perciò con molta sorpresa che all’inizio di giugno, sperduti in pullman in qualche angolo degli States, sentirono suonare Satisfaction alla radio. Ascoltandola in quella versione che considerava provvisoria, Richards ne fu imbarazzato, ma cambiò idea quando il disco filò al primo posto della classifica americana, primo singolo degli Stones ad arrivarci, per restarci oltre tutto quattro settimane, e quattordici consecutive in top 100, superando il traguardo di un milione di copie vendute.
Gli Stones non potevano ancora saperlo, ma quella canzone con la chitarra con il suono del fuzzbox sarebbe diventata la loro firma ed il loro marchio di fabbrica. Ancora oggi è il brano simbolo della band.
Otis Redding ne fece una cover sull’album Otis Blue, registrato agli Stax Studios di Memphis proprio nei giorni in cui la canzone veniva trasmessa per le prime volte alla radio.
Fu il più grande dei riconoscimenti averne una versione prodotta da Tom Dowd con Steve Cropper alla chitarra, Duck Dunn al basso, Al Jackson alla batteria ed Isaac Hayes alle tastiere, oltre alla sezione dei fiati dei Memphis Horns, con Wayne Jackson e Andrew Love, proprio come l’aveva immaginata Richards. Probabilmente ascoltandola alla radio nell’afosa estate del Tennessee, Cropper e Redding si erano domandati perché gli Stones non ci avessero messo dei sasso-
foni. Dopo anni di gruppi bianchi inglesi che suonavano la musica dei neri americani, fu probabilmente la prima volta che accadeva il contrario. Anche Aretha Franklin ne tirò fuori un arrangiamento, simile alla sua Think.
Fra il ’64 ed il ’65 furono dati alle stampe quattro album dei Rolling Stones in Inghilterra e sei in America; la differenza sta nel fatto che in Inghilterra i 45 giri non erano inclusi negli album e nemmeno lo erano i numerosi EP, come 5x5 e Got Live If You Want It!
Invece quelli americani comprendono più o meno tutte le registrazioni ed è questo il motivo per cui è consigliabile seguire gli Stones degli anni sessanta sulla discografia americana...
(leggi il resto della storia e molto di più su Long Playing, una storia del Rock)
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