Un’alba armoniosa come un novilunio. Angiò sciolse le vele che, aureate dal primo sole, sembrarono di seta fine. L’acque eran tanto limpide che si scorgevano i fondali, i remi ribollivano argento. Quando il nano ebbe sboccato il molo, sentì il vasto mare sollevare il gozzo e il cuore gli s’empì di commozione; si voltò verso il paese che era tutto un pulviscolo lucente; gli alberi fioriti di gocce argentee, le case coperte di un manto viola. Il sole esplodeva sopra il pentagono della Verruca, il mare era porpora, e le piccole onde di turchinetto tingevano di celeste la murata, i pesci ciortoni, nel chiarore terso, portavano il cielo nel fondo e l’orate vi stemperavano il sole. L’isola della Gorgona veleggiava silente verso la Meloria, la Capraia sul Montecristo. Le barche all’orizzonte parevano campite sul cielo.
rosa e celeste, le isole fermarono il corso, le barche ripresero la rotta dell’Oriente. Il nano mollò in bando la scotta e la randa tombò al fresco alito del vento mattutino. Il gozzo fendeva di chiatto l’acque, Angiò s’addormentò col timone a orsa.
Quando si destò le vele non facevano più ombra sul mare. Alzatosi in chiglia il nano non vide altro che cielo e mare, il sole era aureolato di un cerchio di minio e l’arie pungevano fresche. Un fremito di gelo percorse lo sterminato. La randa gonfiata e i pollacconi [1] affondarono la murata sottovento, branchi di uccelli si levarono da levante, l’orizzonte si tinse di verde agro, Angiò, confuso, alzò il mangiavento e messe la prua sul Magra. Il sole si tramutò in luna. Si spense. A ponente
l’acque fiatarono caligo e gli uccelli ratti rasentarono l’onde. Angiò sentì diacce le reni. La tenebra fece dirimpetto a lui un abisso concavo, le vele s’inzupparono d’acqua e la schizzarono sul viso del Ferrone che sentì aprirsi sul capo come un cerchio che piano piano si dilatava a imbuto dentro il quale udì crocitar di corvi. Angiò guardò malfidato il mare che s’era tirato a risucchio il cielo. La saetta incrinò lo spazio e lo rifranse in fuoco sull’onde, s’udì come uno sdriscio di vela e il tuono confermò l’inferno. In uno sbadiglio di cielo apparve il Santo Padovano coronato d’uccelli e di saette: −Tempo non eri tempo.
Il gozzo era d’acqua e le vele grondavano, la chiglia fuori metteva, col limo, il gelo dell’abisso. Angiò vide tutto verde. L’Alpe si tramutò in spaventosa ondata che gli si parava incontro tuonante: −Ricordati di Nerin Nerone.
[ ... ] Angiò non vedeva e non udiva. Il capo aveva piombato, la scotta gli risegolava un polso e l’altro tremava sul timone. Il cielo opaco gli sembrò una pietra mortuaria bagnata dalla pioggia. Una grande effigie di Dio vi era grafita a solchi neri, il Santo Padovano, tra uccelli e saette, implorava una grazia: nei lampi l’immagine si dilatava nel cielo, nell’ombre si ricomponeva spietata.
A onor di Dio
a onor di Santo Antonio
la fece qui murare Angiolo Bertuccelli
uom che nell’onde chiare
vivea la sua famiglia
con fatiche e stenti
sul procelloso mare
alle burrasche e ai venti
per grazia ricevuta pensò questo di fare
La chiglia del gozzo percosse sulla sabbia e vi rimase incuneata come l’accetta nel tronco. La barca sfiancò in carena. Angiò dal carabotto [2] cadde nell’acque, s’apparò e le braccia si piantarono nella rena, un demone parve le tirasse verso il profondo. Così, marmò il nano con gli occhi supplichevoli al cielo, all’altezza del cuore gli rompeva il mare a bavarella [3] e lo mosse a fermo, poi anche quello s’incantò e il nano si adagiò in eterno sulla grande coltre. Il Gigante, coll’acqua al malleolo, lo sollevò chiamandolo: −O Drago, o Leone, o Mordace!
La campana del Faro suonava a naufagio quando Fello, col gesto d’Anchise fuggente dall’incendio di Troia, s’avviava alla stanza mortuaria.
Ed or che soffia greco e tramontana
Sia terminata la leggenda strana.
(Lorenzo Viani – Angiò, uomo d’acqua – 1928)
[1] Pollacconi – Vele triangolari
[2] Carabotto – Quella copertura convessa che è a poppa e a prua delle navi
[3] Bavarella (il mare a) – Quando il mare è sollevato da un venticello leggero e si copre di bavarella
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