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Lorenzo Viani, D’Annunzio in Versilia

Da Paolorossi

Quando Gabriele d’Annunzio abitò la «Versiliana», una villa situata in un pineto tra l’Alpi Apuane e il mare, io ero giovinetto, e, radendo la barba, aspettavo il turno del mio destino.

Il Poeta aveva già il cranio levigato come un ghiaione di fiume; una corona di capelli, sotto le bozze frontali e il dente della nuca, cerchiava la poderosa cervelliera. Il mento aveva aculeato da una barbetta ferrigna. Il Poeta soleva adeguare i capelli alla cotenna polita, facendoli rasare con macchinetta a zero e la barba si sfumava a punta di forbice. Alla bisogna necessitava un barbiere esperto.

Il mio padrone: Fortunato Primo Puccini, figaro di prima scelta, – sotto l’insegna «Elmo di Mambrino» grande come una luna in quindicesima, c’era scritto: Parrucchiere della Real Casa di Borbone  – fu indicato al Poeta come colui che poteva saggiamente adoperar la rasiera e le cesoie. Il mio padrone, pur avendo raccorciato la barba fluente di Don Carlos di Borbone e ravviata quella ispida del suo aiutante, il vecchio generale Isidoro di Parraguirre, e conciati tutti i dignitari della Corte, all’annunzio fu colto da certa peritanza. Un abbassamento di vista e certi scatti repentini dei polsi lo conturbavano assai.
– Andrete voi, – disse al nipote e a me. – Guardate che questa tagliatura rimarrà memorabile per voi e per me.

Il cameriere del Poeta, che s’era moltiplicato nella teoria degli specchi di bottega, interrogato dal mio padrone sul come ci si doveva presentare al Poeta e quale titolo gli era conveniente, rispose:
– Poeta, basta semplicemente Poeta.

Il mio padrone, rivolgendosi con sussiego a noi, disse:
– Appena entrate, voi direte: buon giorno Poeta.

In quei tempi, io e il nipote del gran figaro si copiava il Dante: la poesia ci era familiare, ma più delle terzine ci estasiavano le ottave di Bartolomeo Sestini che, per «rappresaglia», declamavano certi marinari incotti di sale e di sole nei fondi dell’osteria:

Da un lato i lontanissimi Appennini
veggionsi quasi immensi anfiteatri
e dall’altro tra i nuvoli turchini
di San Giuliano le cime e di Velatri,
e dalla parte dei flutti marini
sempre di nebbia incoronati ed atri,
sembran uscir dall’umido elemento
i due monti del Giglio e dell’Argento.

La «rappresaglia» consiste nel rispondere a tono continuando la declamazione regolare:

Sentier non segna quelle lande incolte
e lo sguardo nei lor spazi si perde:
gente non hanno….

Versiliana

Versiliana

Il Poeta aspettava alla «Versiliana». Ci si ridusse là a piedi traversando le sterpaie dove tragittavano, camminando all’indietro, come dannati danteschi, i funai che, veduti tra il saettar del sole, ravvolti nei colossali pennecchi di stoppa, parevano fiamme agitate dal vento; la canapa attorcinata alla vita ritorta in tre capi li congiungeva a una ruota di legno, pesante e girante. Poi ci infoltammo nella Pineta, tra le prunaie illuminate da tanti fioretti gialli.

La «Versiliana», laccata dal sole, era fantastica; il mare si concludeva nel telaio delle ampie finestre: quelle a levante inquadravano l’Alpe. Una spera di sole ci fe’ la via nel salone; le nostre ombre, allungate sull’impiantito, si ribaltarono sulla parete dirimpetto. Un uomo tutto verde smeraldo salì rapidamente le scale come un verdone.
– Buon giorno, Poeta.

Il Poeta si ravvolse tutto in una clamide bianca, la testa brunita dal sole luceva di toni bronzati, i capelli di sotto i denti fitti fitti della rasiera piovigginavano sul camice come aghetti di rame.

Versiliana

Versiliana

Il mio compagno palpitava per l’emozione, io contemplavo estatico il Poeta riflesso nello specchio e m’appariva soltanto l’ampia voltata del cranio e il ponte del naso. Egli pareva orasse prono. Adeguata la corona alla pelle polita, il Poeta s’acconciò al taglio raso della barba, – la testa di scorcio richiamava alla mente un frammento del Tiepolo; – quando la barba fu graduata al crinale delle mandibole e i baffi al labbro rattratto, come suol fare ognuno, il Poeta s’alzò, si specchiò or dilatando gli occhi or socchiudendoli e facendo muovere la linea della bocca sul volto vibrante:
– Bene. – La clamide cadde ed egli sparì rapido: – Grazie.

In quei tempi d’Annunzio ebbe una predilezione per il Gombo. La spiaggia allora, dalla Magra al Serchio, era deserta ed egli cavalcava sulla battima sfrenatamente. Erano i tempi della sua foga eroica; costì martellava Alcione e la Francesca da Rimini. La testa doveva essere sonante come un’incudine. Nella frenesia della corsa, il cavallo pareva volasse e non lasciasse nemmeno lo stampo dello zoccolo sulla rena soffice.

I miei guardavano il cancello d’ingresso della Tenuta di Don Carlos di Borbone; sopra i due pilastri quadri, il giglio rosso in campo di porpora dava un saluto d’incantesimo. Nel Parco Regale ci pareva sempre autunno, chè l’ombre eran cupe e il frondeggiare dei pini oceanico, le acacie inverdivano il fogliame dei tigli, i lecci neri contrastavano con l’albore lattato dei pioppi, delle spere d’acqua mettevano il cielo mutevole sotto le ceppe radicate nella terra cromata di ragia. Appena il cancello si apriva, il Poeta lanciava la bestia nell’intrico delle prunaie.

Lungo tutto il Gombo, egli diventò famoso per la sua generosità. I ragazzi di strada stazionavano torno torno al telegrafo perchè eran tanti mai i telegrammi diretti al Poeta che per recapitarli necessitava un corriere ogni dieci minuti e ognuno era ricompensato lautamente.

Il barbitonsore, dal quale avevo preso soldo in quei tempi, era anche il «notaro» della Camera del Lavoro. Una mattina egli fu colto da grande stupore:
– Un telegramma.
– Per me?
– Sì.

«Segretario Camera del Lavoro, Viareggio: Ha terminato la sua grande fatica l’operaio della parola. Gabriele d’Annunzio».

Versiliana

Versiliana

La Francesca era finita. Il mare risonante, le chiuse rinchiostre dell’Alpi, ove vaga l’ombra di Dante, il corso sinuoso del Magra che

per cammin corto
lo genovese parte dal toscano.

e il Serchio che porta «il silenzio alla sua foce» lo videro inquieto inseguire le anime avvinte come tralci al tronco.

Per quel telegramma il Poeta divenne familiare tra i lavoratori apuani. Una mattina egli salì i giganteschi schienali che arginano il «Canal Grande», bianco per varate di marmi. Il Poeta doveva
accendere la miccia d’una grande mina; alcuni quintali di dinamite erano stati colati per tortuosi pertugi nel cuore della montagna. Era una mattinata rutilante. Il mare, visto dalle vette ignude, pareva un drappo di cobalto increspato dal vento fresco; le selve giù per le forre, tinte di smeraldo e viola, rafforzavano i toni affocati del marmo statuario, spettacolosa revulsione vulcanica raffreddata. I ravaneti, – precipitar di detriti, cascata alpina incantata, scandivano la immobilità arcana delle cose.

Tutto lo scenario si apriva come un mostruoso libro: il Sacro, la Tambura, la Grande Pania, l’Altissimo, il Gabberi vi erano come eternati in uno stampo indelebile. Un tuono spaventoso si ripercosse nella valle rifranto su tutti i costoni. La vastità inghiottì a sorsi l’esplosione. La fiancata ferita risoffiò una nuvola densa d’acredine esplosiva e franò come:

o per tremuoto o per sostegno manco.

In quel giorno ebbi agio di vedere il Poeta da vicino: egli era bianco, come scolpito in un blocco della «Tacca bianca».

Rividi d’Annunzio dopo tant’anni alla «Sagra di Quarto», e la notte del 5 maggio nel salone delle Compere in palazzo San Giorgio palafittato di gente. Il Poeta salì al tavolo di comando mantrugiato dalla folla curiosa e cieca. «Non mi hanno ucciso gli obici, mi ucciderà il palpeggiamento della folla», disse l’altro giorno al «Vittoriale» a un giovine amico.

Il Poeta ascoltò intrepido il saluto apuano del Roccatagliata e rispose intrepidamente. Dopo, la folla frenetica travolse i due Poeti come tronchi d’albero caduti in un vortice d’acqua. L’indomani accompagnai all’Excelsior il Roccatagliata, ospite del Poeta. Nell’anticamera stazionavano «gli inviati speciali» presi dal convulso nelle mani. Il Poeta apparve nella seconda scena, egli degnò soltanto Ceccardo. D’Annunzio vestiva di nero con dei lustri sulle rovescie del bavero, bianchissimi i guanti, di marmo tutta la carnagione, il monocolo sfaccettava l’occhio. Degli specchi colossali mettevano il soffitto in diagonale sull’impiantito di noce, la penombra riduceva più esile il Poeta che, respirando, sollevava appena appena il petto. Sotto martellava il cuore che strepitò nel cielo di Cattaro e balzò sul Monte Querceto.

Lo rividi una notte memorabile, quella di San Giovanni, il ’17, sotto le staminare sfiancate e le paratie slabbrate della nave di Monfalcone. La nave era fulminata dai cannoni dell’Ermada. I soldati dagli oubleaux facevano civetta, il Poeta era più intrepido della notte di palazzo San Giorgio.

Rivedevo il mare dopo tanti mesi. Smesso il martellamento, saltai di ceppata in ceppata fino alla poppa che sfiorava l’acqua, immersi le mani nel mare come nell’acqua santa, mi bagnai la fronte accaldata. Le quote dell’Adria si fiorivano di esplosioni e qualche granata si stemprava nel mare.
L’altipiano sembrava incenerito, le strade colavano argento fuso, sulle doline l’aria era più densa. L’ora del sonno dilatò un immenso silenzio. Le sassaie sulle quali ci sedemmo erano calde come pietre focaie. In quel tepore sarebbe stato bello dormire per sempre. Il Poeta s’allontanò, solo, lungo un vialetto di acacie.

Subito dopo la guerra, illustrai un suo messaggio con xilografie estreme. Portai le bozze a Gardone. «Dopo la caduta, la mia testa è diventata un pozzo di saviezza», scrisse ad un amico che, come me, aspettava d’essere ricevuto; e a me, da Gabriellino, mandò questo messaggio:

«Mio caro Lorenzo Viani,
con quanta mistica forza è vulnerato il legno e come potentemente vive ed esprime e significa.Con questi fogli mirabili, per forza di un’altra arte fraterna, anche voi venite a restituirmi in sanità eroica.
E mi trovate inchiodato a un lavoro della stessa durezza e della stessa fiamma.
Comprendete e perdonatemi.
E tornate presto alla mia mensa monastica».

Al ritorno, il Garda aveva l’ondeggiare impetuoso del mare; le murate del vaporetto primordiale con la ruota fuori banda, simile a quella di un mulino, eran percosse dall’acque agitate. La notte apriva fantastici abissi dove pareva che il vapore andasse a picco. Verso Desenzano la luna ruppe le nuvole e l’onde, che non avevano la spinta dell’Oceano, sembravano pesci giganteschi in amore.

 

( Lorenzo Viani, D’Annunzio in Versilia, tratto da “Il cipresso e la vite” )

 


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