Torre del Lago Puccini – Vista sul lago
In una memorabile mattina del giugno 1891, Giacomo Puccini e Ferruccio Pagni s’erano incontrati per la prima volta.
“Le nostre conoscenze,” racconta Pagni in un libro di memorie “furono presto fatte:
– Pagni – Puccini.
– È tanto bello, il lago.
Una stretta di mano e:
– Se lei ha passione alla caccia, potrà divertirsi”.
Dopo undici anni, gli amici Giacomo e “Ferro” si sono ritrovati, e questa volta per sempre, nella melanconica distesa lacustre: il Maestro dirimpetto al lago, da cui trasse tante melodie; Ferruccio Pagni nel piccolo cimitero davanti alla pineta, da cui trasse tante note di vivido colore.
In questi ultimi tempi Ferruccio Pagni, livornese di nascita, torrelaghese d’elezione, figlio di un “Bersagliere della morte” del battaglione Sgarallino, pareva che fiero, serenissimo, aspettasse sempre qualcuno.
Il pertinace pittore “macchiaiolo”, fedele seguace del grande Fattori, era alto di statura, segaligno, quasi del tutto scarnato nel viso, su cui quindici anni di soggiorno nell’America del Sud avevano lasciato una patina di iodio. Aveva la baldanza poetica di un antico cavaliere errante, scudo la larga tavolozza fatta a cuore, lancia la canna palustre su cui posava il polso, destiero, il cuore gagliardo.
Pagni abitava in Torre del Lago; e ogni mattina che Dio metteva in terra, acqua, fulmini o sole, egli si recava in Viareggio a piedi, in carrozza, in auto, in torpedone, in idrovolante. In Viareggio, d’inverno, lavorava in un salone deserto; l’estate il Pagni si sdigiunava or qua, or là, come gli uccelli.
“È l’inverno che mi spaventa” aveva detto ad un intimo qualche giorno fa. Ed è morto sulle soglie dell’inverno che, per la prima volta, aveva detto di temere.
Sapeva egli della sua prossima fine? Qualche intimo lo asserisce. È certo che egli non la temeva. In questi ultimi tempi pareva che aspettasse sempre qualcuno, il quale dovesse giungere di là dai monti, di là dal mare. L’ombra del grande amico forse?
Fu Ferruccio Pagni che in Torre del Lago, impugnata, una pennellessa, munito di un bidone pieno di calcina, dette la scalata al tetto del circolo della Bohème, e sui falaschi lacustri scrisse le tre fatidiche parole, che dovevano poi, sull’ali del canto, risuonare in tutta la terra.
Fu il Pagni che, una notte, giocando a carte col Maestro, ebbe la consolazione di vedere illuminarsi la bella fronte di Giacomo Puccini:
“Silenzio, ho finito la Bohème”.
E il Maestro, sedutosi al piano, attaccò dall’ultimo canto di Mimi: “Sono andati….”. Via via che Puccini suonava e cantava, quella musica fatta di pause, di sospensioni, di tocchi lievi, di sospiri, di affanno, pervasa di malinconia sottile e d’intensità drammatica, profonda, ci prendeva: vedemmo la scena, tutto sentimmo quell’umano tormento.
Quando caddero gli accordi laceranti della morte, un brivido ci percosse; nessuno di noi seppe frenare le lacrime. La soave fanciulla, la nostra Mimì, giaceva fredda sul povero lettuccio, e più non avremmo udito la sua voce tenera e buona. Anche Giacomo pianse. Lo circondammo e muti lo abbracciammo.
Poi qualcuno disse:
“Questa pagina ti renderà immortale.”
( Lorenzo Viani, brano tratto da “Silenzio, ho finito la «Bohéme»”, dal libro “Il cipresso e la vite” )
Torre del Lago Puccini – Vista sul lago