Via Guidiccioni oggi
Via Guidiccioni, lunga quanto il muro dell’orto dei frati francescani che la argina dalla parte dei monti, è la più corta della Viareggio vecchia. Incuneato nell’angolo dell’orto dei frati c’è un fabbricante di casse da morto e, dirimpetto a lui, un magazzino di vino padronale; più in là il fondaco di un fabbretto che fa i denti alle falci fienaie, dei versi estemporanei, e il necroforo; più in là del fabbretto c’è una donna che fabbrica i sigarini di menta e i mangia-e-bevi – certi tortellini croccanti ripieni di un liquido detto melappio – di cui van matti i ragazzi delle finitime Scuole «Raffaello Lambruschini».
Altre tre o quattro casupole di pescatori, e la via Guidiccioni cede il passo alla lunghissima e solare via di San Francesco.
Quando stavo nella casa d’angolo fra via Guidiccioni e via San Francesco, affacciandomi al finestrino dominavo tutto l’orto dei frati e mi pareva d’aver davanti un quadro d’Ambrogio Lorenzetti: un frate potava i sarmenti, un altro svelleva le malerbe, un altro zappettava la terra. Le donne di via Guidiccioni al mattino si spollinavano al sole sulla cantonata aspettando il postino. Il postino scorgendole gridava loro, prima d’essere interrogato: – Niente per Via Guidiccioni. – Le donne maledicevano i mariti smemorati e Guidiccioni. Ma nessuna sapeva chi egli fosse.
– Sarà una specie di Calvani – (col C), lì presso c’era la via Galvani – che per aver spellato un ranocchio e presa una scossa elettrica gli han fatto tanti onori. Io, per esempio, presi la scossa elettrica palpeggiando una razza.
– Scommetterei che il Guidiccioni fu il primo che prese la scossa elettrica da una razza. Altrimenti non li avrebbero messi così vicini. Osservate: via della Luna è vicina a via della Stella, via della Pineta rasenta i pini, e via della Costa, ai suoi tempi, rasentava il mare.
– Ma ci vogliamo levare anche questa curiosità – disse una dallo sguardo malfidato.
Interrogato sul fatto il cuoco dei frati, che in quel momento passava con la sporta colma di pesce, disse che non era prudente tramescolare la luce lettrica con quella del sole, e che per la gente curiosa c’era un paradiso apposta, e che era meglio credere troppo che non credere niente, e che tutti i nomi portavano a casa come tutte le vie portavano a Roma.
– Almeno non fate la spia al padre curato, – dissero mortificate le donne.
– Oh, quello no, – disse serio il cuoco dei frati.
– È tutto effetto della nostra ignorantaggine, – sospirarono le donne, a cui era rimasta per la gola il Guidiccioni, e sparirono nelle loro casupole.
– Tant’è, non sarei più io se non mi levassi anche questa curiosità, – disse, il dimani mattina, la donna dallo sguardo malfidato, alle sue amiche, – e in due mosse faccio dama; aspettatemi qui al solicchio.
La donna malfidata si mise in capo come una monaca la pezzuola nera che portava sulle spalle, ci ravviò sotto i capelli ed entrò di corsa nella casa in cui io stavo scrivendo; fece i settanta scalini a tre alla volta, e giunse in altana trafelata tanto che non poteva sciogliere verbi e parlava a urli come i muti.
– Datti pace e specifica per filo e per segno cosa desideri, – dissi, ed essa rispose grazie e fece un gesto di minaccia alla cucina dei frati. – È da ieri mattina, a quest’ora qui, che sono negligente – e narrò in succinto le risposte filosofiche del cuoco dei frati.
– Se mi dici chi era il Guidiccioni t’incorono, – disse, e più non disse che rimase come una statua.
– Prima di tutto, – risposi, – ti notificherò che il Guidiccioni fu un vescovo e che nacque nel nostro paese.
La donna, dopo aver dato uno sguardo di minaccia alla cucina dei frati in cui si vedeva il cuoco come ingabbiato, sospirò, si sciolse la pezzuola, la fe’ volteggiare per aria come un flagello e sibilare come una frusta, bramendo e sospirando: – Un vescovo? Un paesano?
– Un vescovo, un paesano, – ribattei. – O ascolta.
– Sono tutta orecchi, – disse la donna.
– Il paesano Guidiccioni, nato qui nel dicembre del 1480, studiò all’Università di Pisa con tanto cuore che la fama dei suoi talenti giunse alle orecchie del cardinal Farnese, il quale, avendolo chiamato a Roma, lo fece subito auditor di Rota.
Nel capo della donna tragittò la ruota dei funai che attorce i capi delle funi e il funaio che va indietro, come i gamberi, sotto un gran pennacchio di canapa che talvolta il vento agita come una fiamma.
– La rota, – dissi, – sarebbe quella della Giustizia che macina i rei come quella del frantoio le olive, e lui ascoltava se il perno era unto a dovere.
– Ecco, mi hai levato una ruota di sul cuore, – disse la donna.
– Il cardinale innalzato al pontificato creò il Guidiccioni governatore di Roma; più tardi egli fu scelto per nunzio apostolico presso Carlo V in occasione della spedizione di quel monarca in Affrica. Ritornato che fu a Roma, il Guidiccioni fu fatto Presidente della Romagna allora in subbuglio. Il Guidiccioni riuscì, con la sua fermezza e vigilanza, a ristabilire la calma, ma si vide però in procinto di perdere la vita per mano di un congiurato; ma quest’ultimo, al momento di vibrare il colpo, rimase egli stesso colpito dall’aspetto venerando del prelato e inginocchiandosi confessò il suo delitto in mezzo alle lagrime di pentimento, ottenne il perdono e si ritirò in un chiostro, e per penitenza si cibò per sempre di radici amare.
La donna, che ascoltando gonfiava e arrossava come uno di quei palloncini di gomma paonazza che si vedono nelle fiere, a quelle notizie dette un sospiro tanto lungo che si svuotò tutta e diventò come la cera; si alzò la manica del casacchino e mostrò un braccio tutto accapponito:
– E lui là – disse accennando il cuoco dei frati, – ha detto che tutti i nomi portano a Roma e ci ha mortificate, e tutto per avergli dimandato chi era il Guidiccioni. Ma chi è che battezza le strade nel nostro paese? – chiese ardita la donna. – Al nostro povero signor maestro Giacomo Puccini gli han titolato la via del Fabbretto (e lui era sempre vivo e vegeto) che ai tempi dei tempi ci affilava le falci fienaie il nonno di questo fabbretto che ora le affila qui sotto. Una via in cui c’è sempre una cananea dalla mattina alla sera, l’ultima del paese, e la più subbissata; al nostro Ippolito Ragghianti, che suonava il violino con una corda sola, e che era una meraviglia del mondo, gli han titolato la piazzetta dell’erba, grande quanto una mangiatoia, che dieci fasci di erba gramigna la occupano tutta, e al Guidiccioni questa via che, se ho il bene di uscirci, voglio scuotere la polvere dalle ciabatte come fece il Dante quando venne via da Genova. Al signor maestro Giovanni Pacini gli han titolato una piazzetta, ite e venite, e di transito. Via Paolo Matti – la donna irata straziava così Paolo Savi – bella e lunga quanto la fame, che va dal mare ai monti, dice che è intitolata ad uno che addomesticava gli uccelli, e il signor ministro Coppino, Dio lo riposi, ha fatto tutto mio, come la civetta, di una strada che, così bella, mi ha detto il mio marito, non si ritrova girando tutta l’universa terra. Cosa ti devo dare per il disturbo? – mi disse la donna tenendo una quarantina di centesimi in mano.
– Niente, questi schiarimenti il venerdì li do gratuitamente.
– Oggi è venerdì? – disse la donna stranita e sorpresa. – Me lo faresti un altro favore e poi t’incorono?
– Parla, sono un orecchio solo.
– Da tutto quello che mi hai raccontato mi ci leveresti i numeri per giocare al lotto?
(Lorenzo Viani, “Un viareggino governatore di Roma” da Il nano e la statua nera)
Viareggio – Piazza Ragghianti – La piazza più antica a destra statua S.Antonio – Foto tratta dal libro “A Viareggio sul treno dei ricordi” – Pezzini Ed. – 1992Viareggio – Piazza Ragghianti