«I libri e le carte hanno la testa di cencio».
Queste semplici parole le ripeteva sovente un mercante di libri, un ambulante dotto come uno scaffale che smerciava tra via Condotta e piazza della Signoria, in Firenze, sopra un carretto squinternato. Seppi da lui che Napoleone, nei volumi di Polibio, cercava quel che avrebbero fatto l’indomani i suoi avversari e quello che speravano ch’egli facesse. A riparo della folla, sotto le grondaie trecentesche, addossato al muro a guisa di un marame che la piena di una fiumana abbia travolto, il mercante di libri, nei giorni di mercato, urlava i titoli dei libri preferiti dalla gente del contado:
«Vita e avventure di Stefano Pelloni, il Passatore»
«Vita e avventure del celebre brigante Mayno della Spinetta, il bandito di Marengo»
«Vita e avventure di Cipriano La Gala».
Firenze – via della Condotta
L’omettino aveva il viso agguagliato a una copertina di libro esposta per del tempo all’acqua e al sole; incartapecorito, con gli occhi inchiostrati e stinti. Le mani dell’omettino, gentili come la pancia delle lucertole, rassettavano continuamente i libri sul carretto. L’omettino, ai dotti, schiariva: «Questa è mercanzia, questo è cibo».
Il cibo era una ventina di libri che, ad avergli sfogliati, non avrebbero cibato una bacca. Accennando il cibo, l’omettino sentenziava, con gravità: «L’animo con cotesto cibo bisogna pascerlo sobriamente. I libri, sappiano lor signori, hanno la testa di cencio. Molte cose sono ottime se usate con parsimonia: il pesce, l’olio, i libri e il vino. Mi spiego più chiaramente: il libro è pericoloso al plurale».
A un insolito rumore di folla, l’omettino urlava il titolo di un libro: «I Miserabili»
L’omettino, imbavagliato dall’esperienza, si giovava del titolo dei libri per qualche sua occulta protesta contro i più.
Frequentemente nella piazza avvenivano feste, cerimonie e riviste. In quei casi egli urlava il titolo di una tragedia: «Qualcuno guastò la festa».
Alzava il libro di quarto, come un mattone, e lo faceva battere di costa sul piano del carretto: «Qualcuno guastò la festa».
«Che sia una larvata allusione politica?»
«Giovanotto silenzio, urlerete poi!»
«L’uomo che ride!»
«Silenzio o alle Murate».
L’omettino indignato, col cipiglio di un dragone della guardia, rispondeva: «Ci sono stato un’altra volta. La battaglia di Benevento! »
«Oh, questo sì! »
La stanza ove albergava l’omettino era stivata di libri e vi alitava il fetore della carta stantìa. I libri parevano contesti di foglie di cavolo riscaldato; il fetore della sapienza agitava lo stomaco: su per le canne del naso penetrava col frizzante del tabacco macubino.
«Maledetti i libri,» disse una donna che era occultata da una tenda di percalle.
«Non il libro!» sentenziò grave il mercante. «Se parli al plurale ci si può anche mettere d’accordo.»
La zuppa che la donna aveva scodellata, calda fumante, pareva un impalpo di libri condito con olio di pesce. Le croste del pane bozzigliavano come cartone rinvenuto nell’umido. L’omettino, infiammatosi, repentinamente apostrofò la donna: «Terra sterile! In un tempio tu sei!»
Uno scaffale di libri era nel fondo: quattro dentiere rettilinee sorridevano. I libri mascellari filettati d’oro, gli incisivi cariati e grumati di tartaro, i canini color rosa incarniti. L’omettino, cibandosi, leggeva un libro; la mano poggiata alla fronte, faceva martellare le dita come una lucertola a cinque code.
L’omettino rilevava i «blocchi» dei libri lasciati come una eredità pesante, da certi notari scapoli, causidici vedovi, speziali separati, insegnanti in pensione, ai propri congiunti.
«Mi venga a levare di casa quei tormenti. »
«Uno zio prete mi ha lasciato tanti suoi libri, tutti in latino, si sa; che lo vorrebbe fare un blocchetto? »
«Ao! »
Si presentò un giorno, in lutto stretto, una donna la quale parlò sommessa e quasi sottomessa al mercante. Egli ascoltava con la gravità del confessore. Finalmente esclamò, uncinando il naso adunco con un dito:
«Signora, parli al plurale! I libri.»
«Come vuole lei, » disse rassegnata la donna. «Allora l’aspetto in giornata.»
«Per me tu non canti» disse all’ometto un girovago che rappezzava ombrelli «perchè io leggo soltanto nel libro del «quaranta» che sarebbero le carte da gioco.»
«Conosco anche quello» rispose arguto l’omettino.»
«O via! »
I due si sfidarono dentro un bettolino; costì combinarono che l’ombrellaio avrebbe dato una mano al mercante di libri quando nel pomeriggio egli fosse andato a rilevare il «blocco» dei libri.
La donna luttata abitava alla periferia; ella si dolse con l’omettino di tante sciagure che le erano cadute sul capo a ombrello.
«Ci si ubriaca anche di parole ed è sommamente pericoloso scambiare la vita con la trama di un romanzo. Chi prende questo abbaglio è condotto alla fine di un personaggio di romanzo d’avventure. » ammonì l’omettino.
«Parole sante le vostre! »
La fungaia dei libri era ammucchiata in un canto; quelli sul pavimento avevano fatto presa con una poltiglia simile alla pasta del calzolaio: le federe gialle accartocciate sembravano funghi porcini ributtati sopra un fetido pollino. Sulle lezzole, la muffa, il belletto: sulle copertine marmorizzate e viscide come pelle di biacco; sulle pagine tarmolate come le foglie delle pannocchie di granturco, sulla saponata rappresa dei frontespizi, degli insetti troncolati nelle vertebre, amputati della rupe del cranio e degli anelli della coda, scheletrivano in nero i nomi di Nietzsche, Nordau, Flammarion, Hugo, Hegel, Spinoza, Sue, Walter Scott, Balzac. Alzando i tomi qualche copertina rimaneva sganasciata sull’impiantito. Quando il pastone di dottrina fu caricato sul carretto e l’omettino vi stese sopra un inceratino nero, di quelli che sanno di senapismo, parve che quell’involto nero ravvolgesse il cadavere del proprietario dei libri.
Se un febbrone da cavallo non mi avesse impedito di recarmi in Lucca per ivi inaugurare la «Fiera del Libro», avrei fatto l’apologia di questi «omettini» i quali pare siano sparpagliati in tutte le contrade del mondo. È per loro che noi, cresciuti ed educati sulla strada, abbiamo amato i libri. Sarà stato un bene o sarà stato un male?
Nelle nostre biblioteche, parlo di quelli del mio rango, in cui c’è ancora il disordine degli abbandoni, vi sono dei libri – che messi tutti insieme non strinerebbero le setole di un porco – che amiamo più del letto, della tavola, delle coltri. Più dei figli no! Quando il mio piccolo Franco ne augna uno e lo sdruce e lo squinterna e lo dimembra, io, col tono di voce più carezzevole, gli domando:
«Farai così anche a quelli di tuo padre? »
«No, babbo. » risponde egli angelico.
( Lorenzo Viani , tratto da “Il nano e la statua nera” )
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