Verso il 1892 la pineta di Viareggio era un intricato bosco, un frammento di quella immensa foresta che, rotta qua e là, correva lungo tutto questo littorale, fino a congiungersi con quella del Gombo, dove Shelley, a quei tempi, amava vagare per intiere giornate. I contadini e i boscaioli lo avevano soprannominato «l’inglese malinconico». Lo vedevano sempre solo, meditabondo, muovendo le labbra al ritmo delle strofe che gli prorompevano dall’anima. Difatti lì, sei mesi prima di morire, si dice componesse quel celebre e bellissimo canto, la più splendida pittura in parole d’una pineta che sia mai stata fatta.
L’8 luglio 1822, lo Shelley, appassionato veleggiatore, si mosse in barchetta da Livorno, diretto a La Spezia. Il battello, manovrato dal poeta, poco dopo aver salpato, si dileguò nella nebbia; un tempo rotto a temporaleschi tifoni (quello che investì il battello, su cui veleggiava Shelley, dicesi durasse soltanto venti minuti), sollevate le onde vorticose, mandò in perdizione la barca. Qualche giorno appresso, il cadavere fu straccato sulla battima delle «Due Fosse».
I poeti dettero ala leggendaria alle vele della imbarcazione e fecero approdare Shelley, per improvvisa fortuna, ai silenzi delle isole Elisee. Le ciurme delle paranze viareggine si sono tramandate l’accaduto, rivestendo il fortunoso fatto di leggende stupori e spaventi. Narrava il paranzellaro Raffaello Simonetta, uno dei tre vecchi che videro costrurre e ardere il rogo: «Fu posto il cadavere in una specie di braciere, sorretto da due ferri, sotto cui si fece fuoco, con legna della pineta. Ero presente, e malgrado che la Guardia volesse farmi allontanare, portavo rusco sul fuoco».
Il giorno d’agosto che il corpo di Shelley fu dato alle fiamme era bollente di sole: lord Byron, che presiedeva il rito, per rinfrescarsi, ogni tanto si tuffava nel mare, mentre Trelawney e Leigh Hunt attizzavano il fuoco:
«Di lì a poco, il calore della fiammata gialla si unì a quello del sole; le fascine di pino crepitarono, e, nell’olezzo omericamente mesto del vino e dell’olio, che gli amici versavano sulla pira, del sale e degli altri ingredienti aromatici, che vi gettavano, il bel corpo si consunse».
Compiono oggi quarant’anni che, per iniziativa dell’avvocato Cesare Riccione, aiutato dal sindaco del tempo, Ferdinando Nelli, con il provento di una sottoscrizione, alla quale concorsero italiani e inglesi, fu inaugurato il monumentino a Shelley, opera di gran nobiltà dello scultore Urbano Lucchesi di Lucca. Il monumentino, che sorge dirimpetto al palazzo di Paolina Bonaparte, ebbe l’adesione dei nomi più illustri che vantassero Italia e Inghilterra: Gladstone, Swimburne, Gabriele d’Annunzio, Cesare Cantù, Mario Rapisardi, De Amicis, Giovanni Bovio.
A Giovanni Bovio toccò il vanto dell’epigrafe:
«Percy Bysshe Shelley – Cuor dei cuori – L’agosto del 1822 – Annegato in questo mare – Arso in questo lido – Lungo il quale meditava al Prometeo liberato – Una pagina postrema – In cui ogni generazione avrebbe segnato – La lotta le lacrime la redenzione – Sua».
Viareggio – Piazza Shelley – Archivio e Centro Documentario Storico di Viareggio
S’e qualcuno volesse ritenere a memoria tutte le epigrafi ragguardevoli scolpite sulle lapidi, o sui basamenti, dei monumenti di Viareggio, non dovrebbe molto affaticarsi. Nella chiesa parrocchiale di San Francesco, sulla parete dal lato sinistro, una modesta epigrafe ricorda il luogo ove riposano le ceneri di Costanza Moscheni, che fino dai primi anni mostrò pronto e vivace ingegno, fra le Arcadi di Roma Dorilla Peneja, nata a Lucca al 22 maggio 1786, morta qui il 1830. Una brevissima sintetica epigrafe ricorda ai posteri la casa (lungo il canale) dove il genio di Giovanni Pacini meditò la Saffo. Sulla facciata di un albergo, nella Viareggio vecchia, una lapide ricorda che ivi Giuseppe Giusti, ornato di tutte le grazie dell’idioma toscano, fu di tutte le ipocrisie flagellatore arguto. Un’epigrafe nella navata di levante del Cimitero nuovo ricorda che lì riposano le ceneri del generale Don Isadoro De Iparraguirre, Conde Die Iparraguirre, «nacido en España el 2 de enero del 1816, muerto en Viareggio, el 28 de febrero del 1895», inobliabile aiutante di campo del suo re, Don Carlos di Borbone.
Chi nel crudo inverno, nei giorni in cui il tempo è messo a grandi tifoni temporaleschi, or è qualche anno si fosse messo a rischio d’essere inghiottito dalle onde straripanti sul pietrato, arrischiando i passi verso la cima del molo, avrebbe veduto un cartello imbullettato sopra un palone della luce elettrica con su scritto: «Omero Vestri, tosatore di cani,»; e sotto il cartello, come un cane frustato, Omero in carne e ossa, che, in quel tremendo bombire di cielo e di mare, compitava mentalmente, e talvolta ad alta ed intelligibile voce, le epigrafi che aveva, durante il giorno, letto e riletto sulle facciate, sulle cantonate e sui basamenti dei monumenti.
Omero Vestri, giubba di frustagno alla cacciatora con la «catana», – quella specie di tasca, o bolgia, che in tali giacchette prende tutto il dietro, con due aperture, una per fianco, – piena zeppa di attrezzi da caccia e da pesca, con le cesole lunghe come due spade e una macchina a taglio raso a tracolla, s’era proposto d’imparare a memoria tutte le epigrafi del paese, rivaleggiando in ciò con un altro tosatore di cani, un maniscalco gobbo e dallo sguardo viperino, a cui dicevano di soprannome il «poeta», perchè era ambizioso di cantare in ottava.
Il «poeta» faceva della poesia, anche tosando i cani più scarnati e trascurati. Se qualcuno gli portava un cagnaccio spelazzato, il «poeta», dopo averlo legato alla graticola, dove soleva legare i ciuchi e i cavalli, quando li ferrava, dimandava al padrone del cane:
– Se ne ha a fare un leone, di questa bestia?
– Fai te – rispondeva, malfidato, il padrone del cane.
Il «poeta» smacchinava la coda della bestia e gli lasciava in cima uno spazzolino; poi tosava (macchina a zero) fino alle scapole, lasciando sul collo e sotto il collo all’animale una specie di giubbone intignato. Dopo questa operazione, il «poeta» scioglieva la bestia; mortificata dalle strappature di pelle, e con una pedata l’attruciolava una diecina di passi. Il cane, spaurito e indolenzito, guattiva e mostrava i denti al gobbo che, pieno di alterigia, diceva al padrone:
– «Guarda la tu’ bestia, se non pare il re della foresta – l’uno dicendo all’altro traditore…».
E così cantando, il «poeta», presi i soldi della tosatura, li andava a terminare all’osteria.
Omero Vestri invece si lambiccava il cervello con gli epitaffi massimamente quando aveva bevuto più del consueto e le gambe gli si accenciavano. Era allora che gli riaffiorava invariabilmente alla memoria un epitaffio, che aveva letto e ritenuto a memoria in un piccolo cimitero:
«La vita è un correre alla morte».
Ma Omero Vestri non riusciva muovere le gambe; allora egli cercava nuova forza in un altro epitaffio «Tutto si muove in lento giro eterno»; ma, nonostante il dinamismo contenuto nei due epitaffi, egli rimaneva, lì fermo come una statua.
«Il trameschio del vino coi ponci mi riduce in questo stato: il capo è a segno, ma le gambe mi fan cilecca», concludeva malinconico.
Ma nonostante, «la vita è un correre alla morte», «tutto si muove in lento giro eterno». Il mare, col suo battito eterno della scogliera, pareva assentire alle farneticazioni di Omero Vestri. Finalmente, dopo prova e controprova, Omero Vestri poteva ridursi con tutte le cautele, – chè da sinistra aveva il canale limaccioso, e da destra la scogliera, – alla base dei monumenti e sotto le lapidi murate sulle facciate delle case per vedere di leggerle e ritenerle a memoria. Appena che aveva scantonato il muro di cinta della vecchia dogana, Omero Vestri dava una spallata nella cantonata della casa, dove il maestro Giovanni Pacini aveva lavorato per diversi anni.
Viareggio- Regio Teatro Giovanni Pacini – Foto tratta da Nuova Viareggio Ieri N.10-gennaio 1994
L’epigrafe che il Municipio, a eterna memoria dei posteri, aveva fatto murare sulla facciata che dava sulla piazza omonima, era breve, ma perigliosa:
«In questa casa, il genio di Giovanni Pacini meditò la Saffo».
– Questa la tiro giù come un giuramento falso – disse Omero Vestri. Ma… ci fu un ma: uno, da bordo a un navicello ancorato dirimpetto alla casa del maestro, gli urlò:
– Il genio non medita!
– Esci dalle tenebre, e vieni a specificare la tua opposizione all’epitaffio – disse risoluto Omero Vestri.
Silenzio.
«Il genio non medita? Eppure è riuscito a mettermi una pulce in un orecchio; ma io non m’intruglio». E Omero, con più forte convinzione, declamò:
– In questa casa, il genio di Giovanni Pacini meditò la Saffo.
– I ciuchi non son valenti se non son testardi – ripetè la voce dell’ignoto malfidato.
– Ehi giovanottino – disse sarcastico Omero Vestri – non li hai mai visti strozzare i lupi? Esci dalle tenebre e vieni a misurarti con Omero.
– Bel nome sciupato.
– Se ti disdice il nome d’Omero, vieni a misurarti col Vestri.
– Col Vestrino (che sarebbe un ponce di temperato ardore) – riurlò l’ignoto.
– Oh! Su quello ci si potrebbe intendere. – E Omero Vestri, riappacificatosi con l’ignoto, si avviò difilato sotto al monumento a Shelley, distante due tiri di fucile dalla casa del cantore della Saffo.
Molte volte e molte egli s’era incimentato (come diceva lui) con quell’epitaffio complicato che aveva sgomentato più di un dotto. Omero Vestri, appena sotto al monumento del poeta inglese, leggeva e rileggeva l’epigrafe; quando gli pareva d’averla bene impressa nel taccuino della propria memoria, chiudeva gli occhi come se dicesse le devozioni, e compitava:
«Percì Bisse Shelley, arso in questo mare…. no…. annegato in questo mare….».
E aprendo, come i gatti sonnolenti, un occhio, guardava l’epigrafe e, vedendo che aveva dato nel segno, rideva vanerello.
– O andiamo avanti, or dunque. Arso in questo lido, lungo del quale malediva al Protomèo liberato una pagina postrema, in cui la progenie redentrice avrebbe, lacrimando, sognato la generazione sua….
– Vai a letto, pelacani, che altro non sei, e non fare il pin di monte.
– Vorresti forse significare l’Ippolito Pindemonte, nato a Verona e ivi morto il 1828? – disse Omero Vestri all’ignoto interruttore.
– Pappagallo, che ore sono? – domandò beffardo l’ignoto.
Per Omero Vestri rispondere come i normali, che misurano le ore sugli orologi, gli era una cosa disdicevole alla sua reputazione; allora, dopo aver pensato un po’, disse:
– Saranno le cento.
– Anni di galera!
– Alla voce mi pare che tu sia uno sgalerato a condizione. Ricordati inoltre che brutto è parlar quando non c’è bisogno.
– Silenzio.
– Allora posso togliermi l’attedio della epigrafe?
– Silenzio.
– Ora prendo l’abbrivio e chi ferma è bravo: Scelli, Bisse, perì di questo ardente lido, dentro il quale Protomèo postremo avrebbe liberato le lacrime della lotta redentrice sua.
– Dieci con lode
– Grazie, ignoto.
( Lorenzo Viani, Il poeta e il tosacani, da “Il cipresso e la vite” )