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Lorenzo Viani, Il profilo del Buonarroti

Da Paolorossi

Per dominare il grandioso scenario delle Alpi Apuane è d'uopo portarsi sull'estremità dell'antemurale del molo nuovo di Viareggio: visti di lì i paesi rivieraschi s'annientano sotto, la base titanica; i profili seghettati, dentati, angolari del Carchio dirupato, dell'Altissimo statuario, della Pania secca, dell'ardua Tambura risegolano nettamente il cielo.

Le "Tecchie" staccano bianche sulle fratte ferrigne; le varate dei detriti, cascate precipiti, incantate come da un raffreddamento vulcanico, hanno la gelida fermezza della visione telescopica.

Nel vasto grembo dell'Alpe Apuana è sepolto un popolo muto di statue; in queste "Tecchie" giacque, per un lungo ordine di secoli, il Davide che l'enorme subbia di Michelangiolo disvellò un giorno al sereno radioso.

Leonardo Bistolfi ritraeva nel volto il profilo terribile del Buonarroti: la testa, sproporzionata per la larga dimensione all'esile corpo quasi del tutto scarnato, aveva la fronte in rilievo martirizzata di rughe, gli occhi sereni e tribolati, il naso asimmetrico, la barba riccia. Anche le mani colossali, legnose, plastiche, mal si attagliavano sull'esile corpo del Maestro.

Correvano i tempi ch'egli passava per l'Italia come un Dio, quel giorno che io lo scorsi sulla cima dell'antemurale del molo di Viareggio.

Una comitiva di cuori avventurosi si congregava, in quei tempi, sulla scogliera di levante a guardare giù, nel fondo, i granchi, i favolli, le schiaccine camminare all'indietro e, lontane, lontane le barche invelate, che vanno sempre in avanti. Allogato anch'io in una di quelle spelonche, scorsi il Maestro, di sotto in su, e mi pareva ch'egli fosse già collocato sopra un basamento. Lo riconobbi per le tante effigi che in quel tempo pubblicavano riviste e giornali.

Non visto, uscii dai meandri della scogliera e pedinai il Maestro. Volevo conoscerlo, ma come chiamarlo? Maestro, professore, Leonardo? Repentinamente con un tono di voce di quando uno, di notte, ha paura, urlai:
- Bistolfi!
- Oh, caro! - disse egli, prima ancora di avermi veduto.

Rimasi interdetto davanti all'umiltà del Maestro; la mia chioma, nera, folta, intricata come i ciuffi delle pagliole, s'agitava sotto il vento marino; su ogni capello sventolava un proposito, una determinazione, un libro, un quadro.
Il Maestro mi disse familiarmente:
- Cosa fai qui?
- Niente, - risposi.

Nel frattempo, Bistolfi aveva scorto la congrega dei miei amici, i quali avevano, come i barbagianni, messo il capo fuori delle spelonche: teste eremitiche, barbe profetiche, facce glabre tra il frate cercatore e lo sgalerato a condizione, occhi di santi e di manigoldi.
- E quelli chi sono? - chiese il Maestro.
- Sono i miei amici.
- Oh cari, state seduti!

Placai lo stupore di tutti quegli occhi spalancati sopra Bistolfi, dicendo:
- Questo è il più grande scultore del mondo.
- Allora, - disse il più stralunato- tocchiamogli la mano, - e tutti parve prendessero l'acqua benedetta dalla mano di Leonardo Bistolfi, il quale, pregato da me, acconsentì di pernottare a Viareggio per recarsi l'indomani al mio studio.

Il dimani, di primo mattino, Leonardo Bistolfi passeggiava dirimpetto alla Camera del Lavoro, in cui era incorporato il mio studio, sotto il torrione di gelida pietra, che s'estolle maestoso sulle darsene stagnanti: la prigione, monito perenne e tremendo.

Bistolfi, piccolo di statura, diventava piccolissimo sotto la sinistra mole mortuaria, fiorita di semprevivi, che coi larghi piani sovrapposti portava sul cielo un sigillo funebre, un orologio a liste bianche e nere. L'occhio vivace del Maestro, di piano in piano, saliva al cielo e discendeva alla terra.
- Cos'è questo edificio? - chiese perplesso.
- Sono le carceri. - Dalla doppia graticola si scorgevano certi porcili di pietra e dei serbatoi di bardiglio. - Quelle sono le celle di rigore: quella è la segregazione. - Il maestro si strinse la fronte fredda, con le mani tremanti:
- Le conosci? - chiese.
- Quando facevo la barba ai carcerati.

Salimmo le scale, che portavano al mio studio, squallide come quelle della torre. Sulle panche di castagno del grande salone c'erano congregati tutti quelli della scogliera di levante, che volevano riverire il maestro. Renaioli dalle membra impolpate d'acque sciapite, cavatori, scamozzati di qualche arto dalla mina, spaccasassi dalle mani e dal viso suppliziati dalla mitraglia della strada, vagabondi tosati dal vizio, gente perduta marchiata dalla colpa, all'apparire di Leonardo Bistolfi tutti si alzarono con riverenza. Sulle pareti nude si scorgevano i carboni del Matarelli, raffiguranti Alessandro Manzoni, Giordano Bruno, Giovan Battista Vico e l'Urbinate, il Cellini e Michelangiolo.
- M'assomiglia, - disse, accennando il Buonarroti.
- È tutto lui, - aggiunsero, trasecolati, gli astanti.
- Grazie, cari, ma questa rassomiglianza mi angoscia.

Spalancato che ebbi l'uscio del mio studio, nel quale c'era stretta clausura, dissi alla congrega:
- Ora voi andate.
- E perchè? - chiese stupito e quasi mortificato Bistolfi.
- Perchè ora glieli fo vedere dipinti.

Una stenderia di cartoni, segnati con solchi neri e profondi, era imbullettata a una lunga parete e sui cartoni v'erano, quasi crocefissi, tutti i miei amici tribolati.
Dopo qualche ora, uscimmo all'aperto: la torre in quell'istante suonò i dodici tocchi del mezzogiorno.
Leonardo Bistolfi mi disse:
- E a quest'ora, i tuoi amici, dove sono?
- Sono lì, - e accennai una baracca di legno, fosca e caliginosa, mezzo sconquassata, fatta con vecchio fasciame di bastimento ancora impeciato.
- Andiamo lì anche noi, - disse Bistolfi.
- Sì, - risposi perplesso.

Entrammo; gli amici eran tutti seduti intorno a un grande tavolone da refettorio senza tovaglia; pareva che si apprestassero all'ultima cena; una fumacea d'olio fritto e rifritto appestava la taverna tanfata dal pesto dell'aglio e del peperone. Tutti si alzarono. Bistolfi, dopo averli pregati di sedersi, si collocò in mezzo a loro. I congregati intorno al tavolo si cibarono composti e prudenti, come i ragazzi quando sanno che alla mensa è seduto un uomo di grande fama; qualcuno non schiavò nemmeno i denti. Leonardo Bistolfi mangiò e bevve secondo gli usi della taverna. Quando uscimmo, tra la riverenza di tutti, egli mi disse:
- Questa è stata una delle più belle giornate della mia vita.

La sera, dopo ch'egli fu partito, ritornai alla taverna e chiesi al più stralunato dei congregati:
- E a te che effetto ha fatto il Maestro?

Egli rimase perplesso; poi disse con tono melanconico:
- L'effetto di un Cristo spirante.

( Lorenzo Viani, Il profilo del Buonarroti, tratto da "Il cipresso e la vite" )

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