- Insomma vado a Lucca - dissi un giorno risoluto a mia madre. Lei sapeva per esperienza che quando avevo detto una cosa era quella. Mia madre sbracciò, urlò, si tapinò, disse che ero la sua dannazione.
- Io ho detto che vado a Lucca.
Mia madre disse che avevo un viso che ci si sarebbe pestato sopra il lardo e che pensassi bene a quello che facevo:
- Fai quella vicina all'ultima.
- Ma tant'è, vado a Lucca.
[...]
Finalmente sbramai l'ansietà di andare a Lucca, ed albergai nel quartiere del "Bastardo", allora il più losco della città. La casa, la stamberga desolata, in cui mi accucciai, rendeva il tanfo dei cavoli imputriditi e il lezzo del sudiciume rincotto.
A un altro, che dormiva in un cuccio poco lontano dal mio, gli dicevano "Macella". Macella, sempre sborniato, ronfava come un porco. La casa nera come una carbonaia sapeva del bruciaticcio dei cenci e dell'ossa. La figlia della padrona di casa, era sordomuta e già grigia, congestionata, bavosa, e con i baffi e la barba sì che pareva un uomo immascherato a donna.
Destandosi abbaiava a urli di lupo, poi si piantava su due gambe resipolari sulle quali dondolava un pancione indolente come un enorme tumore. La madre dilupata dall'etisia fredda, gialla come la candela di sego che teneva infilata in un collo di bottiglia, con gli occhi incamiciati di materia, diceva sempre - Ohi me. - Le rispondevano un latrato della figlia, e una maledizione di "Macella". Molte mattine la muta, che non aveva palato, seduta sul mattonato mangiava la candela, e il lucignolo sgrassato le pendeva dalla bocca come uno spaghetto. Il mio letto rendeva il gelo delle lenzuola in cui si ravvolgono i morti di colera, il capezzale era quello della cassa dissepolta.
Sopra il mio capo c'era una croce. Sotto il capezzale "L'Inferno".
Studiavo alle Bell'Arti. Il mio recapito era in via dell'Anguillara, una via che sbiscia tra il Pozzo di Santa Zita e piazza S. Frediano. Lì ci stava un magnano detto "Bronzino", patrigno di due giovanotti di cui uno morì a Adua e l'altro in un fondo di letto. Seduto sull'incudine parlavo con Bronzino dell'Internazionale.
Un ciuffo di grimaldelli pendeva dal trave come un mazzo d'uccelli spolpati. Un mantice - enorme ventre di bue morto di carbonchio - tutto rattoppato, era nel fondo, strippato. "Bronzino" tutto quello che guadagnava invece di metterselo addosso se lo metteva in corpo.
Vicino al Pozzo di Santa Zita c'era una rimescita di vino da cui egli faceva la spola: bottega rimescita, rimescita bottega. La sera lo tenevano in due. La mattina beveva l'amaro dei frati. Sopra il fondaco di Bronzino v'era un tavolone su cui era scritto a caratteri rugginosi Sartoria.
Dal veroncello si affacciava sovente il sartore, bianco di carnagione, nero di pelo, con gli occhi liquefatti sotto gli occhiali, il quale guardava accorto e sospettoso in giù. Bronzino guardava astuto in su e poi pareva volesse farmi delle confidenze, ma finivano sempre in sospiri.
Il sartore, implicato in un tragico processo dell'Internazionale bakunista, in cui egli aveva fatto delle rivelazioni, era riuscito a farsi credere morto. E quando si affacciava aveva veramente del dissepolto.
Qualcuno per lui era da anni ergastolano. Ricordo il dramma del riconoscimento avvenuto sul tavolo della sartoria. Il sartore disse:
- Sì - come quando in sogno rispondono morti.
Mi cibavo in una bettola situata in via degli Streghi. I commensali: "Pinella" rivenditore di giornali a cui avevano tolto un occhio con una ditata, la cui orbita vuota gemeva sempre sul viso strutto, scemito dalla bibita. Egli parlava come singhiozzasse ripetutamente:
- Po ...po...po...po...vvero ...Er...rrrrrcoli.
Si doleva così per la morte di un compagno.
- Ma gli volevi bene?
- I...i...iiiiii... un giorno gli ho fatto due nottate.
- Povero Ercoli gli ho fatto due nottate in un giorno.
L'Ercoli fu un credente fermissimo, d'aspetto allucinato; divorato nelle carni dalla tubercolosi, nell'anima dalla passione.
Lo rivedo, sul fondo alabastrino del San Frediano, giallo come un cero, con gli occhi affossati e ardenti, tra la tenebra di un vestito nero, con sul bianco della camicia, palpitante come una fiamma, il fiocco volante. Ragionatore e metafisico, determinato e freddissimo.
Egli era ottico e la sua professione lo aveva condotto alla visione chiarissima anche del pensiero. Quando col monocolo scrutava la gente o con gli occhi la pagina di un libro vedeva nettamente. Le sue idee erano corrosive. Da lui ho appreso Stepniak e Bakunine.
Rigettava come roba acre e dissolvente la filosofia di Nietzsche. Il calcolo marxista lo esasperava. Un giorno egli partì per Londra e vi abitò lungamente. Il caligo del Tamigi gli mozzò il fiato e la vita. Andò a Londra bandito. Il sole d'Italia, il lume d'Italia lo chiamavano.
Era carnevale, le maschere strepitavano per le vie, le finestre esplodevano carta colorita, pochi i domino. Uno solo, andava solo per le vie deserte come uno spettro. Quando lo incontrai in una via squallida del Bastardo, ebbi terrore come di un monatto, l'impressione crebbe quando il domino mi indicò un antro orrido; v'entrai compreso di paura. Il domino s'alzò la maschera: era l'Ercoli di cera.
Alla mia destra sedeva "Spara orsi", un lustra scarpe, vecchio scarnito e tutto pepe che quando era molestato dai ragazzi diceva loro: - Ehi giovanottino, non hai mai visto strozzare i lupi?
"Spara orsi" in una sera cascò due volte nel medesimo pozzo. Uscito da una rimescita all'aria della corte, si sedette sull'orlo del pozzo per affibbiarsi le scarpe, perse l'equilibrio, dette balta e giù a capo fitto. Al tonfo corse gente e Spara orsi fu preso per i piedi e assommato sull'orlo.
- Ma come è andata?
- È andata così, o fratelli: io ero seduto sul pozzo come ora, ho tentato di allacciarmi una scarpa e...
- Misericordia di dio!
Spara orsi era caduto di bel nuovo nel pozzo e sgambettava come un dannato dantesco.
Capo tavola era il "Cavalier Grotta", dicevano così a uno che faceva i giochi di prestigio, il quale, figura di alto lignaggio in quel consesso, parlava scelto e forbito. Una volta mentre in un caffè egli asseriva che da una bottiglia fatata dovevano uscire delle fiamme, questa per una formula sbagliata esplose e ferì una quindicina di persone e il "Cavaliere" dovette tirarsi nel fiume e guadagnare a nuoto l'opposta riva.
Quando il Cavaliere era sopraffatto dal vino e si addormentava, i commensali prendevano una copertella di cucina e per mezzo di una stringa glie la mettevano sul petto attaccata. Poi vi capitava uno a cui dicevano "Livorno" perchè parlava con la lisca in bocca. "Livorno" geloso della moglie come un gatto rosso, una volta le aveva fatto prendere un giuramento sopra una pentola in cui egli aveva messo a bollire una croce:
- Giuralo su questo sacro bollore: crudelaccia!
E un acquaiolo, il quale a giornate sane si slombava a portare ai piani alti delle case le barile dell'acqua e la sera dopo aver scialacquato col vino per coerenza alle sue idee - la proprietà è un furto - buttava via tutti i denari che gli erano avanzati. Poi la mattina mezzo smattugito, chiedeva a qualcuno: - Senza compromissioni politiche paga un grappino? - e ricominciava a salire carico a soma.
Anche "Macella" era della comitiva. E c'era una donna leta, la quale asseriva che i pidocchi succhiano il sangue cattivo.
La notte, su per le vie strette, sbiancate verso gli ultimi piani dalla luna, dove stecchivano i rami neri degli alberi dell'orti, si parlava di Federigo Nietzsche e delle cose che sono al di là del bene e del male. La filosofia del pessimista, acetata dalle tanfate di vino, ingarbugliava quelle povere teste.
- Se non ti senti più astro degli alti non hai il guardo veggente.