San Pellegrino in Alpe
Tra la moltitudine dei rivenditori di «abitini sacri», tipi singolari di pellegrini, che vanno dall’Alpe di San Pellegrino al Santuario della Madonna di Montenero e dovunque si venerano sacre reliquie, oggi ho potuto conoscere un astrografo.
L’astrografo si è ridotto per queste contrade su di una bicicletta pitturata di giallo agro come il ventre di una lucertola fiumatica. Il veicolo è arnesato come un battello in procinto di salpare per una lunga campagna: due spigoni di ferro battuto aculeano la forca anteriore e su questi due sostegni è collocata una valigia che sembra di terracotta; un fanaletto elettrico è centrato sul manubrio: in trasparenza, sull’occhio di vetro, si può leggere: Crocetta Tervigiana; due ordigni da beveraggio pendono dai freni che si avviticchiano al manubrio: su di uno è scritto Monte Plana e su l’altro Trio di Cadore; un cinghione di cuoio sacrifica un cappotto al telaio: sul cinghione c’è pirografato Rocca di Manselice. Dalla forca anteriore pende, appiccata con un fil di ferro, la statua di un santo che l’astrografo asserisce essere quella di San Genesio. Gli è stata disdetta da un paese, dove si venera tal santo, perchè, con l’andar del tempo, quei paesani hanno tramutato il nome di Genesio con quello più correvole di Ginese: «Noi si venera San Ginese e voi ci avete scalpellato San Genesio: andate con Dio!».
Livorno – Santuario Madonna di Montenero
Sui parafanghi della ruota posteriore poggia una cartella da disegno, marmorizzata di celeste e di bianco, dove spicca un talloncino cenerino con su scritto a mano: «Astrografie eseguite di comando».
«Insomma, galantuomo, – ho chiesto allo strano pellegrino, – vorreste specificarmi cosa significa questa strana parola: astrografia?».
L’astrografo ha frenato il cigolante veicolo. Le ruote sotto il morso dei freni han fischiato come due topi presi nelle tagliole. Egli ha posato un piede sulla via rotabile ed è disceso scavalcando con l’altro il sellino a guisa di un abile cavallerizzo; ma è rimasto sulla via con le gambe aperte, come un compasso, e rigido come uno che avesse ingollata un bastone.
L’astrografo ha una senata di piastrelle di marmo, che dall’ombellico salgono fino alla fossetta clavicolare, quasi che egli, scarno come un paravento, si fosse inzavorrato di marmette per timore d’essere portato via da una raffica di vento gagliardo.
«Andiamo là – ha detto l’astrografo – là, a quel «pubblico abbeveratoio» e vi darò tutti gli schiarimenti».
Lì prossima c’era una rimescita di vino padronale, davanti al cui ingresso era infissa sul terreno, con le quattro zampe di pino secco, una tavola rusticana. Ci siamo seduti al tavolo che sapeva di resina e, dopo aver ordinato due bicchieri di vino legittimo, il pellegrino, con tono deciso, e dogmatico, ha detto:
«L’astrografia non ha nessuna relazione con l’astrologia, la scienza dei Caldei, di quella figlia di savia madre che, trovando sempre nuovi eccitamenti nella curiosità e nella superstiziosa credulità degli uomini, potè usurpare l’universale venerazione con l’arrogante presunzione di poter leggere nel cielo le sorti future degli uomini. L’astrografia è l’opposto della pirografia: là si traffica con il fuoco; qua si specula nel campo siderale. Ma l’uomo – ha soggiunto l’astrografo quasi ispirato – essendo animale di imitazione, ha bisogno più di esempi che di altezzose parole».
Sì dicendo, egli ha sbottonato la camicia e si è tratto di seno una mattonella di marmo nero e le sue mani gialle e scarne son sembrate le granfie di una gru colossale, la quale, dopo aver tragittato l’Oceano, si togliesse dal ghebbio una pietra non digerita.
«Imaginate una notte illune senza palpiti di stelle», dice quasi frenetico.
– L’ho imaginata.
Nel breve tempo della imaginazione, l’astrografo ha tratto di tasca una piccola verga d’acciaio, sul cui vertice è congegnato un ago di macchina da cucire acuminatissimo; poi l’astrografo si è seduto come gli Scribi dell’Egitto ed ha cominciato a picchiottare con l’ago sul marmo nero ed ogni colpo accendeva su quel nero un astro d’argento.
Bello è il mirar l’immensità totale del firmamento allor che a mille a mille gli astri d’argento mandano scintille.
– Siete diventato anche poeta? – ho detto all’astrografo.
– Sono sempre stato – ha risposto egli con misurato orgoglio.
La lastra di marmo nero si è coperta di una costellazione fitta e la costellazione, per accorte disposizioni dell’astrografo, ha preso le soavi sembianze della Serva di Dio Gemma Galgani, Vergine lucchese.
Intorno al tavolo si è congregata una quantità di ambulanti, di pellegrini e di sfaccendati e tutti sono stupiti ed ammirati per la valentia che dimostra lo stravagante incisore. Se l’astrografo, il quale ha un viso scaltrito di volpacchiotto, non avesse, prima d’iniziare l’opera, appuntato con delle cimici a un palone le riproduzioni di astrografie già eseguite alla Madonna di Montenero e a quella di Capriglia e una Cena degli Apostoli, molti di questi pianigiani lo avrebbero scambiato, ai suoi discorsi astrografici, per un diavolo travestito.
Tutti hanno osservato con meraviglia che l’astrografo lavora con gli occhiali, – soltanto con l’armatura degli occhiali, – privati delle lenti. L’astrografo chiarisce che un giorno, in un’osteria di Bassano Veneto, alcuni magnani gli fecero una burla, togliendogli, senza che lui se ne avvedesse, le lenti agli occhiali e ch’egli «per quistion di nervoso» potè lavorare bene ugualmente. Allora da quel giorno decise di far l’economia delle lenti, e tiene a cavallo del naso le stanghette, soltanto per scaramanzia.
Il proverbio consiglia di pensare ben sette volte prima di parlare; ma l’astrografo «apre bocca e lascia parlar lo spirito». Ultimato il primo ritratto astrografico della Beata Vergine Gemma Galgani, egli si abbandona ad altre digressioni sull’astrografia, asserendo che una nottata di plenilunio, stellato fitto, – è una astrografia mal riuscita. Per schiarire più efficacemente i suoi argomenti, fa dei disegni sulla terra: «Lassù, in quel labirinto di stelle, dicono che c’è Marte, Saturno, Venere, l’Ariete, e anche il Cancro; ma cercateli? Il Carro è senza ruote e il Timone senza giogo. I poeti ci vedono anche le vacche e le pastorelle e poi e poi….».
– Ehi galantuomo – intima un vecchio colono, il quale ascolta insospettito – più su della gronda del tetto non ci ha letto nessuno che sia mortale, e brutto è parlar quando non c’è bisogno.
L’astrografo asserisce che lui è al suo posto, perchè degli astri non ne fa commercio profano, ma se ne giova soltanto per imagini sacre e che i suoi discorsi si riferiscono agli eresiarchi pagani.
– Quando è così – dice il vecchio colono – diamoci la mano e lasciamo il cielo agli uccelli.
Nel cielo turchino, argentato verso i monti rivolti al mare, sono apparse le prime stelle. L’astrografo rimette i ferri nella valigetta, le riproduzioni nella cartella, la lastra di marmo in seno e si appresta a risalire sul veicolo. La congrega si scioglie silenziosa. Ora l’astrografo pedala verso Camigliano.
I fischi delle ruote riarse par destino nei fossati le raganelle. I campi sono tutti un canto rauco; nel cielo si formano dei triangoli, dei pentagoni, delle chiocciate di stelle: la luna falcata sembra una fattoressa di profilo, vestita di celeste, che guardi la stenderia dei campi verdi lineati d’argento.
( Lorenzo Viani, L’astrografo poeta da “Il nano e la statua nera” )
Livorno – Santuario Madonna di Montenero – Ex voto
43.771051 11.248621