Viareggio – Inizio dei lavori per la nuova sede dei “Poveri Vecchi” sull’area del Camposanto Vecchio – Foto tratta da L’Istituto dei Poveri Vecchi – Edizioni della Fontana 1994
Il fabbricato dell’Istituto dei poveri vecchi, in cui sono raccolti anche gl’invalidi del mare, ha sepolto con le sue fondamenta il cimitero vecchio di Viareggio, dove per secoli giacquero le salme dei fondatori della città. Le ossa antiche sono state pietosamente dissepolte e portate a riposare, in un grande tumulo comune, nel cimitero nuovo, dirimpetto alla bianca chiesetta sulle cui fiancate si suole murare le lapidi in memoria dei dispersi nel mare.
Viareggio – Istituto dei “Poveri Vecchi”
Anche il mare, cimitero sterminato, è stato benedetto stamani all’alba. Le famiglie dei dispersi del mare, massimamente le donne, la mattina consacrata alla festa dei morti si raccolgono intorno alla chiesetta: le lapidi brevi rammentano il golfo di Magellano, le Azzorre, le solitudini polari, l’Atlantico, il golfo degli Aranci, l’isola di Monte Cristo: tutti i mari si sono aperti sotto ai fragili scafi paesani per inghiottirli. Dopo il suffragio e la messa, si forma la processione che, con gli stendardi in cui sono effigiati i Santi protettori dei naviganti, si reca sulla battima del mare solitaria e deserta.
I vecchi navarchi, gl’insonni, dopo aver ascoltato la messa nella chiesa della Santissima Addolorata, di cui tante volte nelle tempeste hanno chiesto, a mani giunte, la intercessione presso il Padrone del mondo, e aver riprovato il ribrezzo della perdizione medesima mirando gli ex-voto dipinti con mani e cuore tremanti: ondoni tetri, spelonche, scogliere nere, voragini di fondali paurosi come le callaie dell’inferno, anche loro si recano nel posto medesimo della battima dove debbono giungere i sacri stendardi.
Le vecchie donne dei pescatori aspettano da tante ore sui poggi aspri di pagliole recitando il rosario: nere, sul fondo del mare cinereo, sembrano vecchie polene spalmate di pece, relitti di un grande naufragio. Le darsene lontane, squallide come selve brucate nel fogliame, sono folte di alberi su cui si incrociano i pennoni in segno di duolo; sui carabotti, guardinghi come vecchi mastini, sono rimasti soltanto i guardiani intabarrati nei ruvidi cappotti incatramati.
“La benedizione dei Morti del Mare” – L.Viani – premiato Biennale Venezia 1920 – Foto tratta da Versilia giovinezza del mondo – Pacini Fazzi Ed. 1982
Quando dalla pineta di levante spuntano gli stendardi neri balenanti d’oro, tutti quelli che aspettano si raccolgono per umiliarsi sulla nuda spiaggia. Tutti guardano il mare contristati, all’orizzonte passano vele nere su baleni di sangue vivo. I crociferi piantano lo stendardo sulla rena e s’inchinano, il prete leva il braccio da cui pende un manipolo nero e giallo, la benedizione pioviggina sul mare di piombo: «Pace a voi che non trionfaste sull’ira del mare, sul furore delle tempeste, che nel grembo delle vele di fortuna e di speranza non poteste imprigionare i venti onde tragittare sugli abissi, che di terrore in terrore vedeste le chiglie dei vostri barchi abissarsi verso l’Erebo e chiudersi su voi il pelago per l’eternità.»
La gente genuflessa si sente marmare l’orsa come gli scheggioni delle Apuane, i singhiozzi spenti nei teli neri sembrano gorgogli di gente in procinto di annegare: «Pace!».
Per tutto il santo giorno dei morti, su tutte le calate, dal Renaio al Lazzaretto, si parla delle tristi navigazioni e delle tremende perdizioni. I vecchi incappottati di casentino, rosso come la sinopia che colora le vele dei bragozzi, dalla pelle scabra e incotta come la scorza del pino asprita dai venti salmastri, e gli occhi trasparenti come acque marine cristalizzate, o verdi come il limo dei fondali con le barbe sfuggenti simili agli aguglioli dei pini salvatici, narrano i loro naufragi.
Qualcuno che il dolore ha impietrato ascolta con gli occhi sbarrati e la bocca sigillata. Quel racconto egli l’ha ascoltato per la centesima volta, chè i vecchi marinari narrano cento volte e cento la cosa medesima con la convinzione e l’ardore che la rinnova sempre, e chi l’ascolta si accende similmente d’ira come la prima volta. E quelli che hanno ascoltato, a bocca e cuore chiusi, la terribilità del naufragio, finalmente prorompono in una maledizione al mare:
– O vile, rendimi quello che mi hai ingollato!
Il mare, sfragellandosi negli scogli, pare prorompa in uno sghignazzamento. Allora il vecchio navarca, ridotto dall’atrocità del mare sulla nuda terra, digrigna i denti:
– Con una boccata mi mangiasti un figlio, con una boccata mi hai mangiato il cuore!
– Lo conoscevo il povero Tista buon’anima, – è il vecchio vicino, che assente sospirando: – fu ingollato dall’acque del Garigliano.
– Non ho più occhi per piangere.
– Lui non perdona: quando ha detto, ha scritto.
Dei pescatori, che erano col rastrello laminato da una lastra d’acciaio, lungo la battima, gettano l’ancorotto; l’acque fendute fanno un sobbollimento di candide spume e sembrano aver inghiottito un ululo di disperazione.
– Il mare è traditore come il lupo!
I marinari non somigliano al resto del mondo; il resto del mondo, quando si sdegna o s’impaura di una cosa, si allontana da questa inorridito; il marinaro ha subìto tanti affronti dal mare: l’impassibile cento volte e cento li ha sacrificati su delle acuminate scogliere, li ha travolti, sommersi, sballonzolati sui cavalloni, li ha fatti frisare dalle saette e resi supplichevoli su selvagge arene alla mercè dei pirati; ma il marinaro, nonostante tutte queste angherie, non può vivere se la mattina, sia sole o tempesti, non va a salutare il mare.
E quando per la pericolante salute, per la vista che declina, per l’ossa che si dilogano, la schiena che s’incurva, deve buttarsi alla via della terra, tra gl’invalidi, egli sta su quella specie di nave di pietra che è il molo di levante, e di lì specula e dialoga e indaga e consiglia.
E quando è alla bettola di «Calena», inebriato dal vino cancarone, allora, memore dell’antico estro, naviga sulla piccola barca delle ottave rimate:
In Natolia v’è Smirne e Trebisonda,
la Siria Aleppo e il bel Damasco vanta,
contiene ancor Gerusalem la santa.
Nel Diarebecche formato fu d’immonda
polve Adamo…
e della dea d’amore
Cipro, il bel regno, il turco ha per signore.
Anche in questo santo giorno dei morti, il vecchio marinaro non si allontana dal mare. Stamani nella chiesa ha ricevuto il pane dei forti, l’ostia consacrata, poi, pregando, si è portato sul luogo da dove il sacerdote ha impartito la benedizione ai compagni dispersi. Con i compagni superstiti ha rievocato le tribolazioni di quando andò in procinto d’essere risucchiato dal limo: – Avevo già nell’ossa il tremito della morte, e mi sentivo i peccati legati come pietre ai nodelli, e pesanti come la palla al piede del forzato. Sarei andato giù se non ne avessi fatto la remissione e la Madonna dei dolori non mi avesse steso la sua mano pietosa. O fratelli, ch’io perda gli occhi, e mi secchi la lingua, se quel ch’io vi dico non è vangelo; vidi apparire branchi di uccelli di tutte le sorte, e anche quelli che son d’ombroso augurio come il corvo, la cornacchia, la gru, avevano cambiato il loro canto sinistro in quello dell’usignolo, e l’onde che prima erano taglienti come coltelli e tutte pareva dovessero ferirmi, divennero tenere come seta fina; avevo arsione e tolsi con le mani accoppiate una giomellata di acqua dal mare e la trovai più dolce del miele. Un branco di rondini pareva volesse indicarmi coi rapidi voli a fior d’acqua la via della riva; armate di pesci, sguisciando fuor d’acqua, argentavano il cielo. Come trasportato dal venticello marino, giunsi felicemente sulla battima, posai sulla rena soffice; lì caddi in un sonno profondo e mi destai nella capanna di un pastore, disteso su di un manto di pecora, e il pastore mi disse essere devoto della Madonna dei dolori e che la notte aveva sognato quel che di poi avvenne.
I racconti vengono interrotti da un fragore di tuoni; eppure il cielo è terso, l’acque cristalline, il canale palesa tutti i segreti dei suoi fondali, ma sono percossi da un fremito.
Gli stupìti si fissano negli occhi. Sono le navi che, al di là del Tino, con una bordata di trecentocinque salutano gli eroi caduti sul mare!
(Lorenzo Viani, “La benedizione dei morti del mare” da Il nano e la statua nera)