Fino agli ultimi anni dell’ottocento le famiglie che custodivano i «luoghi» le chiamavano col nome dei padronati. A quella di mia madre le dicevano «I Fondora».
I Fondora (dei rami di Buonaccorso di Lazzaro Fondora, Coscio o Cosciorino, la cui moglie, per l’età, si adatterebbe ad essere la Gentucca di Dante
Ma, come fa chi guarda e poi fa prezza
più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me voler contezza.
El mormorava; e non so che ‘Gentucca’…
possedevano un «luogo» sui colli della Pieve di Santo Stefano Lucense.
Soltanto nell’ottobre, per la svinatura, il padronato abitava il palazzo costruito sul colle più eminente da dove si vedeva
in piccol cerchio
torreggiar Lucca a guisa di boschetto
e donnearsi col prato e col Serchio.
Pieve Santo Stefano in Valfreddana
L’edificio, solenne come un altare, con due alti cipressi ai lati, bozzato di pietrame bigio con la facciata bianco-avorio che staccava sul grigiore degli ulivi e il ferrigno delle selve, aveva una scala a due rampe balaustrate di marmo canario che portavano nel salone buono. Nature morte e le quattro Stagioni oleografate decoravano le pareti spaziose. Un orologio solare oltramontano, dalla nascita al tramontare del sole segnava l’ore all’opre che travagliavano sui campi; quando mancava la luce scandivano l’ore battute dal campanile della Pieve e da quello di San Martino in Vignale. Sotto una scarpata di pietrame, ardua come un baluardo, c’era acchiocciata la casa dei miei; il pozzo fondo, costrutto con ghiaioni politi dall’acqua corrente dei Serchio, era situato al centro della muraglia.
Il «celliere», cella vinaria («Lo tuo celliere dee esser contro a settentrione, freddo e scuro, e lungi da bagno e da stalla e da forno e da cisterna e da acqua e da cose che hanno fiero odore») era situato lontano dalla casa come un piccolo santuario. Il vino del posto solatìo, maestoso, imperioso, che passeggia dentro il cuore e ne scaccia senza strepito ogni affanno, era l’unico prodotto che il «luogo» desse doviziosamente e che poteva essere convertito convenientemente in denaro. Lontana la stalla dove mugghiavano i giovenchi, lontano e ben sigillato dalla chiudenda di ferro il forno, lontano l’ovile che rende nella caldura il lezzo dei manti, lontano il pollame, lontani gli stallini dei porci.
Nel «celliere» c’era allogato anche il telare: quattro colonne di castagno rastremate da un telaio di noce, un tamburo di sorbo massiccio tralicciato di sottilissimi fili, due pedali e un grande sedile corale, la spola sempre accoccata al telo. A volta a volta mia madre e le sorelle, tutte statuarie si assidevano al telare e, come ispirate, lanciavano la spola dalla mano diritta a quella mancina sulle onde tenui dei fili. Anche il telare era sacro nella gran casata di «quei dei Fondora».
Quando il capoccia chiamava per un’opra: «Onesta, Virginia, Carlotta, Faustina, Emilia», e la madre rispondeva:
«È al telare», quel nome non veniva più proferito per tutto il giorno.
Vigneti nella campagna lucchese
Anche la casa degli opranti aveva il salone mattonato di pavonazzo con il soffitto travicellato di castagno rude e le pareti di pietra viva. Una gran tavola da Cenacolo e quattro panconi erano gli unici mobili del salone. Dal centro del soffitto pendeva un lume ad olio simile a quello delle Parche. Una Croce e una rama di olivo benedetto erano inchiodate sulla parete di fondo. Sotto alla Croce si assideva mio nonno che pareva la statua del Tempo. Dirimpetto si assideva la moglie carnosa, salcigna, quartata con la fronte decisa, il naso a uncino, la bocca recisa, gli occhi d’aquila reale, i capelli bianchi tirenti, scriminati che s’acchioccolavano sugli orecchi. Al lato destro del padre erano sedute le figlie: Onesta, Carlotta, Emilia, Virginia, Luisa, Faustina; alla sinistra i figli Francesco, Raffaello, Gabriele e tutte l’opre chiamate a travagliare per quel giorno sul «posto». Nessuno schiavava i denti prima d’aver risposto alla orazione che guidava mio nonno. Lo rivedo col capo curvo, la gran barba annodata tra le mani incallite, insieme alla corona di dodici poste, solenne come un anacoreta dipinto dal Ribera.
La sera, quando Onesta, la figlia più alta, accendeva il lume e vi poneva contro una mano al riparo del vento, questa s’incendiava di lacche e il salone schiariva nel fondo un dipinto di Gherardo Delle Notti.
Il mio nonno sembrava un Patriarca: barba bianca dell’aureo tono di chi l’ebbe bionda, occhi verdi marmorizzati di celeste, alto e membruto, colle mani scabre e insidrite come la scorza dell’olivo nel verno crudo; egli s’esprimeva con la esperienza dei «proverbi». Essendo il capoccia, non era mai contraddetto da nessuno:
«Chi vite innesterà, dormendo il vino avrà».
«Per raccogliere bene bisogna ben seminare».
«Il concime senza essere santo fa miracoli».
«Chi raddoppia il concime raddoppia il luogo».
La terra che sanguina quando l’intacca il marrello, che sotto i venti gelati diventa d’acciaio freddo e nel seno tepido prepara lo scoppio delle gemme verdi, le selve dagli annosi tronchi pertugiati ove s’annidano i picchi dal becco acuminato, che avevano dato le trava alla casa, il timone al carro, lo stilo alla vanga, il rullo al telare, l’arca alle nozze, la cassa alla morte, videro la possente figura di mio nonno errare col pennato attaccato all’uncino, ricogliere e proverbiare.
Nei mattini lucenti di sole, quando le erbe son lattate di brina e ogni festuca s’imporpora, egli, col tridente cavato dal ramo di un sorbo, capovolgeva la mucchia del concio fumante e pareva il sacerdote di un rito misterioso.
La Milla, – per le corti chiamavano così mia nonna, – sfaccendava per la casa intonando canzoni incomprensibili: o che rimuginasse le patate che bollivano per i porci in una gran caldaia, o che filasse alla rocca come una Parca stralevata, o che rovesciasse i bolliti sopra la conca del bucato, essa cantava ridendo e piangendo. A volte, questo donnone spettacoloso teneva nel grembo una montagna di mele e le faceva in quattro per i trògoli. I nepoti, dispersi per le città impietrate ed aride con gli alberi di ferro battuto, la guardavano tagliuzzare quella verde grazia di Dio invidiosi dei porci.
– Voi, – essi dicevano, – la date ai porci questa bella frutta e noi dobbiamo star senza ad annate.
– Allora la Milla piangeva come vite taglia e quando i nepoti partivano gli empiva le tasche di mele, gliene dava un sacco e li accompagnava ai limiti estremi del «luogo» dolendosi: – Miserere di noi che si dà la grazia di Dio ai porci.
Era la Milla che trafficava sul coppo dell’olio per empire la libbretta al colmo, tanto che doveva pulire la boccaiola riboccante ai capelli che le lustravano come verniciati; era lei che condiva nei tondini la zuppa uguale uno all’altro.
Onesta, Virginia, Carlotta ed Emilia, quando si rivolgevano a lei, la chiamavano Milla, ed essa rispondeva affabile; gli altri la chiamavano mamma, e a volte rispondeva loro arcigna.
Una mattina di aprile, mia madre, quand’ebbe parato le pecore su per le aspre selve del Rimortaglio, si assise come un’antica divinità agreste sotto l’ombra di un gran leccio nero. Col pennato aveva prima tagliato una vetta di castagno in amore, la incise in tondo e cavò la scorza polita come una canna d’organo, vi fé il foro, l’inzeppò di un tassello del medesimo legno e vi trasse dei suoni come di flauto. Dai greppi del Rimortaglio si dominavano tutta la Pieve e la vallata che rendeva la eco delle carra rotolanti sulle vie maestre e il mormorìo del fiume che si vedeva spolverare argenteo sui greti celesti.
In una insenatura fredda tra mortelle, quercioli e cipressi, su un verde agro, c’era il cimitero piccolo come un orto; un nastro di seta rosa sottile e sinuoso, che pareva steso ad asciuttare sulla selva, lo congiungeva alla chiesa; degli incappati bianchi parevano uccelli posati sulle mortelle.
D’improvviso mia madre intonò un canto lene:
E quando la mia mamma mi cullava,
– O bimba sventurata, – mi diceva.
Al mio stupore disse impacciata: – Mia madre è là; – e accennò il cimitero.
( Lorenzo Viani , “I Fondora” – racconto tratto da “Il nano e la statua nera” )
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