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Lorenzo Viani, «Marchese» Ceccardo d’Ortonovo

Da Paolorossi

Pochissimi sanno che il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, tra le tante cose che fece nella sua vita tumultuaria ed ardente, fece anche tre anni di legge all’Università di Genova. Quel favellare ampolloso ch’egli aveva quelle citazioni a pennello dei più complicati articoli del Codice penale per i delitti che succedevano in quei tempi, e la stesura in termini chiari e prescritti delle querele per diffamazione e per ingiurie palesavano che il poeta, un tempo, si era occupato di leggi e di codici.

Processi in quantità contristarono la vita già faticata del poeta apuano. Citeremo i più celebri: quello per la sconsacrazione del ponte sul Magra, quello di Pavullo nel Frignano, per aver suonato a martello le campane della torre di Sant’Andrea Pelago, come segno d’insurrezione per la manomissione della fonte del Baronio, quello per abuso di titolo d’alto lignaggio, quando, interdetto dalla sentinella di passare il ponte del Frigido, nel Massese, con un imperioso «Chi va là», urlò: – Il marchese Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, dei feudi d’Ortonovo.

Gli avvocati esercenti del Chiarone alla valle della Roja (tutti quelli che facevano versi), erano sempre presenti al lungo banco della difesa: il collegio leggeva i versi al poeta che distratto consultava invece il Codice penale sottolineando gli articoli che si confacevano alle sue «disavventure».

Dopo i processi che terminavano invariabilmente con l’assoluzione il poeta, che fantasticava condanne, tristi esili, trionfali ritorni, tra il commosso delirio del popolo, dava il bando agli avvocati gridando: – Io volevo Waterloo e voi mi avete portato a Borodino!

Viareggio - Darsena vecchia - Foto tratta da Nuova Viareggio Ieri -N.9-novembre 1993

Viareggio – Darsena vecchia – Foto tratta da Nuova Viareggio Ieri -N.9-novembre 1993

Una mattina di molt’anni fa, mentre stazionavo, nell’ufficio di un avvocato, il quale faceva versi, giunse la posta e tra questa fu facile scoprire la sopraccarta di una lettera del poeta, con la sua calligrafia minuta femminile, impeccabile. L’avvocato aprì la lettera del poeta e lesse attentamente; una nube di tedio adombrò il suo sguardo sereno.
– Cosa è accaduto? – chiesi.
– Leggi e capirai.

«Disponete ch’io possa nel veniente autunno iscrivermi all’Università di Pisa, onde conseguire la laurea in legge, dopodichè aprirò uno studio di notaro nell’Apua materna». La mano che stringeva la lettera del poeta cadde giù inerte e il foglio sventolò come la bandierina del casellante, quando è transitato il direttissimo; fui colpito dal medesimo intontimento che produce il rapido passaggio di quello strepitoso convoglio.
– Arriva dopodomani.
– Io, vado in Francia – dissi.

Prima che io potessi partire per la Francia, mi capitò tra capo e collo il poeta, il quale soppesava un valigione da emigrante pieno di libri, i codici li aveva infilati nelle tasche della gran palandrana napoleonica; aveva una frusta sotto il braccio e un ramo di alloro all’occhiello; il nodo scorsoio della cravatta a filo di una spalla, il colletto strappato; il cappello era di traverso sui capelli scarduffati. In quello stato doveva essere condotto a Pisa ad iscriversi alla facoltà di legge. Gli amici lo guardavano trasecolati; a me fu dato l’incarico di vigilarlo e di servirlo:
– Ricordatevi di me – dissi a quelli che si allontanavano in fretta e furia.
– Vivi tranquillo.

Tolsi la valigia al poeta e mi sembrò piena di pietroni. Ci avviammo all’albergo. Sciolta una cintola da cane mastino, che legava la valigia, stivai i libri sul tavolinetto: Mortara, Gabba, Carrara, Calisse mi fecero più terrore delle granate innescate e graduate e delle bombe a mano. Mentre io trafficavo coi maestri del giure, il poeta, colossale come un ciocco di una rovere secolare, si era gettato sulle coltri e leggeva il codice penale. Il suo umore era nero, nero seppia, bocca di lupo; mi distraevo osservando l’acque morte delle darsene. A un tratto parve che un pipistrello colossale avesse battuto nel soffitto e si fosse schiacciato sull’ammattonato.

Mi voltai di soprassalto; il poeta aveva sbatacchiato il codice sulla parete e lo pestava gridando:
– Brutta bestiaccia.
– Ci siamo – dissi.
– Cosa fai lì, sei rimbecillito – mi urlò diabolico il poeta.

Nel rispondere inciampai in un francesismo:
– Guardo il bordo del mare – Si scatenò l’inferno!
– Non mi avvelenare coi tuoi gallicismi!

Mortara, Gabba, Carrara, Calisse furono scaraventati fuori di finestra insieme ai codici, le sedie, la catinella, la brocca; stava per volare anche il comodino quando s’udì dalla strada un urlo della comitiva apuana:
– Fermi, che è arrivato il giorno della gloria.

Il poeta, madido di freddo sudore, con gli occhi freddi di un lupo preso alla lacciata, s’era seduto sulle coltri: ebbe appena il fiato di dire
– Parlate.
– Sei stato nominato segretario generale della costituenda provincia de La Spezia.

La provincia de La Spezia, un grosso chiodo su cui aveva disperatamente battuto il grande martello ceccardiano. La prima cosa a cui fu pensato fu la carta da visita. Dopo una buona mezz’ora ebbi la bozza:

«Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, letterato e critico d’arte. Segretario generale della costituenda provincia de La Spezia».

Trafelato come un cane, corsi alla tipografia e di lì a due ore ritornai con cento biglietti stampati su cartoncino di lusso. Il dimani partimmo per La Spezia; nel portafoglio non c’era altra carta che quella di visita. Cammin facendo, se ne fece larga distribuzione e s’ebbe parecchi rallegramenti.

Eravamo affacciati al finestrino, quando apparvero i primi baleni argentei del golfo de La Spezia.
– Cuore al vento! – urlò il poeta, trasfigurato, e i versi impeccabili ch’egli, nei tempi duri della tristezza, aveva composto sul golfo, e la epigrafe per Shelley dettata da lui e murata sul portico della villa Maccagnani in San Terenzo e il manifesto per il varo dell’«Andrea Doria», conchiuso in periodi chiari e sonanti, rintronarono il vagone di terza classe.
– Chi è? – si chiedevano molti stupefatti.
– Il segretario generale della costituenda provincia de La Spezia, – urlava, fiero di sè, il poeta.

Girottolammo tutta la notte nei giardinetti davanti al golfo dei poeti, soli come due dannati.

«Ecco la nave col triplice erpice alato, misuratrice di onde». La fiera stirpe dei Doria, nata a vincere sul mare, come gli Scipioni sulla terra. Sacra ai lor Mani una nave, e sia ministra di sterminio e di morte. Parole e immagini si accavallavano nella fantasia febbricitante del poeta.

Nel punto medesimo, ora c’è il busto del poeta tragico, che guarda il golfo del colore dell’acciaio. In questi giorni, qualche giovine poeta avrà portato un rametto di alloro sotto il basamento di colui che, in tempi neri, cantò i fantasmi e gli eroi aleggianti sul golfo?

La mattina, il poeta parve ridestarsi coi nidi.
– Ricordati della mia iscrizione all’Università di Pisa, chè l’alta carica, di cui sono stato investito, comporta la laurea in legge. Sarei come il notaro della provincia.
– Te la faremo dare ad honorem.

 

Lorenzo Viani, «Marchese» Ceccardo d’Ortonovo, tratto da “Il cipresso e la vite”


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